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Il dilemma che deve aver affrontato la giuria della 68° Mostra di Venezia – e che si pone anche chi il cinema lo diffonde nelle sale e nei cineforum – è quello che affligge da sempre la produzione d’autore: favorire i film belli e impossibili oppure quelli belli e accessibili, facili da distribuire e comprendere, con attori noti e impostazione narrativa classica?
A Venezia 68 – una buona edizione, forse inferiore alle previsioni – si sono visti entrambi i tipi di film: e la giuria presieduta dall’americano Darren Aronofsky ha scelto di premiare i primi, assegnando il Leone d’oro al russo Faust di Aleksandr Sokurov e il Leone d’argento al cinese People Mountain People Sea di Cai Shangjun, ed escludendo quasi del tutto i secondi. Meglio, ha consegnato sì il Gran premio della giuria a Terraferma di Emanuele Crialese (lo si può già vedere nelle sale e giudichi il lettore della qualità di un’opera per chi scrive piatta e superficiale), ma ha dimenticato i grandi film di Cronenberg e Polanski, le pellicole di genere di William Friedkin (Killer Joe) e di Ami Canaan Mann, figlia del grande Michael (Texas Killing Fields) o i seducenti e parecchio modaioli Shame di Steve McQueen e Wuthering Heights di Andrea Arnold, versione realista e sporca di Cime tempestose.
Tanto per fugare ogni dubbio: il vincitore di Venezia 68 è un capolavoro, una moderna versione dell’opera di Goethe con cui Sokurov attualizza la tensione al male e alla conoscenza dell’uomo e costruisce un universo figurativo di straordinaria bellezza, tra la pittura fiamminga e l’icona russa, il flusso di coscienza e il ritratto grottesco.
Un film indimenticabile. Così come bello e importante è People Mountain People Sea, dramma nella Cina rurale sulla ricerca di un assassino da parte di un operaio minerario, arrivato in concorso a sorpresa e senza visto di censura; e come ancor di più lo era A Simple Life di Ann Hui, storia commovente dell’affetto tra un produttore cinematografico e la sua anziana domestica.
La questione, però, è capire se il Faust di Sokurov, quando arriverà nelle sale (se ci arriverà, mentre per altri titoli possiamo metterci una pietra sopra…), sarà amato dal pubblico non abituato al cinema “artistico” oppure sarà rifiutato perché troppo lungo o complesso. Non è una questione di capacità o intelligenza di ogni singolo spettatore, ma di pazienza. Di quanto tempo, cioè, siamo disposti a concedere a ogni film per dispiegarsi in tutta la sua bellezza.
Se una cosa gli otto anni di direzione Muller, alla vigilia del suo probabile addio, l’hanno insegnata, è che in realtà nel cinema non esistono categorie ma solo differenze produttive. Se poi i film sono belli o brutti, questo dipende in egual misura dai registi e dagli spettatori. I festival esistono per aprire una finestra sul mondo e sulla società: la speranza è che lo spettacolo che vi si ammira arrivi anche a chi il cinema lo segue nelle sale, in tv o su internet. Sarebbe un bel segno di democrazia dello spettacolo, se accadesse. L’occasione per giudicare ogni film per quello che è e non per quello che rappresenta.
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