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Venezia 68. “Sadeke Balai”: alla ricerca della ‘sacralità’ perduta

Creato il 01 settembre 2011 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Venezia .68. “Sadeke Balai”: alla ricerca della ‘sacralità’ perduta

Venezia 68. “Sadeke Balai”: alla ricerca della ‘sacralità’ perduta

Anno: 2011/ Durata: 150’ / Genere: Drammatico                                                     Nazionalità: Cina, Taiwan / Regia: Wei Te-Sheng

 

Avvio la mia scrittura veneziana all’insegna del sentimento di nostalgia…il mio occhio civilizzato ed epurato dalla purezza e dalla coscienza del sacro… Nostalgia per una consapevolezza perduta dell’esistere insieme e nella natura, dentro la sua bellezza e la ‘crudeltà’ della sua legge della sopravvivenza, nel suo soffio vitale che in tale simbiosi e scambio continui rendono una coscienza dell’esserci che noi abbiamo completamente dimenticato: nella meraviglia e in una venerazione timorosa verso l’ambiente in cui siamo immersi, nella e per la morte a cui siamo destinati, nel dolore che va affrontato con coraggio, in valori che hanno sostanza perché conquistati sulla propria pelle, attraverso esperienze e prove che scandiscono le differenti tappe della vita.

Nella nostra aborigenia perduta…Sadeke Balai (Warriors of the Rainbow: Seediq Bale) di Te-Sheng Wei inConcorso a Venezia ’68, ci rende tutto questo dentro un’epica ma non ingannevole trasposizione cinematografica, incentrata su di un episodio totalmente sconosciuto ai più Occidentali e noto scarnamente agli stessi Taiwanesi, pur se li riguarda direttamente. Nel 1895 l’isola di Taiwan divenne una colonia giapponese (fino al 1945), e la popolazione aborigena della tribù Seediq, che fu la prima ad insediarsi su questo territorio rigoglioso, ricco di acqua, di minerali, di una bellezza trascendente, fu completamente sottomessa alla cd. (e presunta) sanante civilizzazione. L’intento di Te-Sheng Wei, come da lui stesso esplicitato nelle dichiarazioni rese in merito al proprio film, è rievocare, alla luce delle credenze Seediq, il cd. episodio di Wushe, avvenuto nel 1930 e concretizzatosi nella ribellione degli aborigeni sottomessi, che inflissero un duro attacco ai coloni, uccidendo parecchi ufficiali giapponesi in una lotta comunque destinata al più completo fallimento, repressa poco dopo dall’esercito giapponese, anche ricorrendo alle prime e poco sperimentate bombe a gas. Mouna Rudo è il personaggio aborigeno attorno al quale ruotano e passano il prima e il dopo, il suo arrivo alla maturità (15 anni) nella iniziatica battuta di caccia affrontata e nell’educazione al divenire e sentirsi eroe, futuro capo indiscusso orgoglioso, carismatico, temerario, coraggioso, realisticamente invincibile, anche nella contrapposizione alle altre tribu dei Seequid che popolano l’isola.

Caratteristiche che Mouna Rudo, e con lui e per lui (nel rispetto che gli viene dato e nel totale affidamento di cui viene investito), la piccola comunità della sua tribù, e i Seequid tutti, conservano immutate dopo la sottomissione nipponica, compresse/represse nella combattuta ambivalenza tra l’affrontare l’invasore, sapendo di venire completamente estinti nella morte, e sopravvivere dentro una vita aborigena sempre più ristretta nel territorio e, conseguentemente, nelle tradizioni e nella stessa essenza dell’essere Seequid. Alla fine, la ribellione-martirio sarà inevitabile… e gli aborigeni riusciranno a preservare la propria sacralità, quel legame spirituale mai perduto nei confronti dei propri morti e dell’esistere stesso, che la civilizzazione stava devastando.

Te-Sheng Wei è abile nel rendere palpabili e vive, sia intimamente che visivamente, l’aura sacrale propria dell’umanità ‘primitiva’, e la riflessione sul senso e il ruolo della civilizzazione, sulla scissione e la perdita di identità di quegli indigeni che cercano (o si illudono) di poter abbracciare un modo di vivere, e soprattutto di essere, impossibile da assorbire fino in fondo per chi è ‘sacro’. L’ampiezza temporale che la narrazione abbraccia non appesantisce nè ridonda la visione, grazie ad un ritmo tenuto quasi fino alla fine sempre allerto da un montaggio rapido, fluido e vigoroso, specie nelle scene di battaglia, in genere molto ardue da rendere nella tenuta di attenzione. E da una fotografia che non disdegna parentesi evanescenti, animiste… Ottimi gli attori, che anche nell’incarnazione fisica trasmettono una nostalgica libertà perduta… da tutti noi.

Maria Cera

 

Venezia 68. “Sadeke Balai”: alla ricerca della ‘sacralità’ perduta
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