DON’T EXPECT TOO MUCH di Susan Ray
USA, 2011, 72 min. voto: ★★/4
Questo documentario sulla prima esperienza da docente di Nicholas Ray (Gioventù bruciata, Johnny Guitar) è firmato dalla sua vedova e raccoglie le testimonianze degli studenti dell’epoca che ripercorrono le fasi della produzione del film collettivo che il regista fece con loro, We can’t go home again (proiettato a Venezia in questi giorni). Ne esce il ritratto di una personalità forte, pratica e a volte geniale, un gran comunicatore, ma anche un uomo preda delle dipendenze, votato all’auto-distruzione. Il suo progetto con gli studenti è un tipico prodotto sessantottino: sperimentazione visiva (l’allucinante teoria delle immagini “multiple”) unita all’idea della comune, per la quale l’esperienze è vissuta costantemente, e in maniera logoramente, tutti insieme alternandosi nei ruoli. Un interessante documento di un’epoca e un affettuoso ritratto di un grande regista.
L’ARRIVO DI WANG dei Manetti Bros.
Italia, 2011, 82 min. voto: ★½ /4
I fratelli Manetti (Piano 17, Il commissario Coliandro) si sono sempre distinti nel panorama italiano per una certa intraprendenza nelle trovate visive, una sana propensione per i film di genere e una forte dose di ironia. In questo film ritroviamo tutte e tre le componenti; ci troviamo infatti di fronte ad una caso rarissimo di sci-fi all’italiana, con un inusuale (per noi) uso delle computer grafica e un’idea di fondo azzeccata. Una studentessa di cinese viene chiamata in gran segreto e portata in un bunker dove dovrà fare da traduttrice per il signor Wang. Il perchè il tutto si svolga con estrema riservatezza diverrà chiaro alla ragazza svelata la vera identità di Wang e la situazione precipiterà ben presto. Non voglio rovina la sorpresa, nè il twist finale, dato che solo le uniche due cose che salvano il film; il resto è una regia semi-televisiva, scarso sviluppo della sceneggiatura soprattutto durante il lungo interrogatorio, evidenti limiti di budget, recitazione sotto la media e dialoghi che sfiorano a volte il ridicolo. La metafora sociale rimane molto in superficie anche se è interessante il fatto di averla inserita in un contesto di genere. Il tentativo è comunque lodevole e alcune trovate comiche azzeccate permettono di arrivare alla fine senza troppi pensieri.
SHOCK HEAD SOUL di Simon Pummell
GB, 2011, 86 min. voto: ★★★/4
La figura di Schreber, il più giovane ad entrare alla corte suprema tedesca sul finire dell’Ottocento per poi impazzire subito dopo dando un dettagliato resoconto della sua esperienza, è estremamente affascinante e il film di Pummell la rende così bene anche nelle sue sfaccettature metafisiche da farne uno dei migliori film visti finora alla Mostra. La ricostruzione di quella discesa agli inferi (con ritorno) si intreccia con commenti di veri psichiatri e flashback della dura educazione che ricevette e a cui viene ricondotta la fonte della psicosi. La bellezza delle immagini e l’uso del grandangolo lasciano spesso a bocca aperta, così come l’ottima colonna sonora, i pochi ma efficaci effetti visivi e soprattutto la straordinaria interpretazione del protagonista. Certo il film non gira ad alti regimi ed alcuni passaggi della malattia non sono chiarissimi (e come potrebbero?), ma riesce ad essere allo stesso tempo toccante e disturbante, a catturare lo spettatore facendolo entrare nel mondo di Schreber, ponendo domande sulla natura della follia e i limiti del’uomo.
SHAME di Steve McQueen
GB, 2011, 99 min. voto: ★★½ /4
IN CONCORSO
Brandon (ancora ottimo Fassbender, a questo punto papabilissimo per la Coppa Volpi) è un uomo in carriera dalla perfetta immagine pubblica, ma nasconde una vera e propria ossessione per il sesso, consumato o guardato che sia. Una mania questa con la quale convive piuttosto bene finchè il trasferimento della sorella (Carey Mulligan) nel suo appartamento porterà a galla tutte le tensioni accumulate da questa incapacità di amare, o semplicemente godere del puro atto fisico. McQueen mette subito in chiaro le cose con un nudo integrale del suo protagonista e non ha paura di continuare a girare laddove un regista solitamente avrebbe tagliato. Ne risulta un film particolare, asettico come un porno ma denso come un melodramma, con una forza notevole che McQueen è abile nel trasmettere sia con lunghe inquadrature statiche che con movimenti più virtuosistici. Ma se il comparto tecnico (ottima anche la colonna sonora) è impeccabile, lo stesso non si può dire per la sceneggiatura, così che il problema principale diventa l’incapacità di scavare davvero dentro il personaggio di Brendon, lasciando lo spettatore fuori, incapace di empatizzare o semplicemente capire da cosa derivino i suoi comportamenti. La sfrontatezza dimostrata per tutto il film, poi, viene meno proprio nella parte finale, dove il regista si riallinea con una narrazione più tradizionale che vede l’eroe cadere, sguazzare letteralmente nel sangue, per poi riemergere in una catarsi finale piuttosto ambigua.
EDA