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Perché The Master è un film sulla follia come sguardo sulla realtà e sulla follia come risultato di un nulla che genera il male e l'ordinarietà delle persone. Nonostante i sogni del mistico intellettuale del titolo, alla fine di ogni uomo non ci sono milioni di anni, non ci sono ricordi traumatici o vite precedenti, ma un eterno presente mosso da bisogni corporei e materiali, c'è l'allievo del maestro che usa le sue teorie per scopare, che non sa fare altro che menare le mani, distruggere una cella, mandare affanculo, fottersi un manichino di sabbia, che desidera vivere una vita libera che in realtà libera non è, perché fatta non di viaggi, di assenze di catene, di sogni in Cina, ma di nulla, di spazi vuoti, di un campo dove correre, di un deserto dove viaggiare a vuoto verso un punto perduto nell'orizzonte. Nell'unico momento in cui il guru Lancaster Dodd apre la testa malata di Freddie Quell Anderson trova una sequenza di cinema puro e potentissima, un campo e controcampo di primi piani, squarciato dai ricordi di Freddie (ricordi non di una vita passata, ma di un rimpianto sentimentale, l'unica sensazione che spezza il vuoto pure delle canaglie). Niente carrelli, niente steadycam, niente luci riflesse, ma una macchina a mano che si muove dolce e lenta, quasi fosse oggettiva, quasi non volesse violare l'intimità dell'unico momento vero nella vita di un uomo qualunque e sbagliato. Forse mi sbaglio, ma nell'incontro tra questi due corpi, grazie anche a due attori giganti come Saymour Hoffman e Phoenix, nel cinema che si espande solo attraverso di essi, e non in virtù di una visionarietà a cui non ha più diritto, ci ho trovato la sola risposta possibile alla vuotezza di immaginario a cui ci siamo condannati e alla quale lo stesso Malick non ha saputo opporre resistenza. E che invece Anderson realizza con uno sguardo che si contrae, che scruta dentro se stesso, siccome là fuori c'è solo più il vuoto
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