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Venezia 69 - Dentro il vuoto

Creato il 02 settembre 2012 da Robomana
La sparo grossa, poi provo ad argomentare. The Master di P.T. Anderson è un film che sta un metro sopra The Tree of Life. Un film che trova il cinema laddove quell'altro, con tutte le sue cose meravigliose e tutte le sue cose pacchiane, finiva solo per rincorrerlo e ripeterlo. Sono due film completamente diversi, non faccio paragoni e non mi metterò qui a dire "questo ha questo e quello ha quello"... Ma nel tentativo di The Master di entrare nella testa dei suoi personaggi e provare ad aprirsi un varco nella loro follia, dentro un buco nero scavato dalla guerra, dalla paranoia degli anni '50, dall'idea che il passato sia l'origine di tutto, del male, del dolore, dell'ipnosi collettiva, da tutta questa materia incandescente realizza una trascendenza dell'immagine e del cinema stesso che, a mio parere, lo stile visionario ed espressionista di Malick mancava. Qui c'è qualcosa di più moderno e inatteso, c'è un regista più complesso e respingente di quanto vorremmo, non più l'Altman contemporaneo e nemmeno il nuovo Scorsese appassionato e appassionate. Un regista che ha scelto di distillare frammenti puri di un cinema classico fatto di corpi e di volti, di colori cupi e di controcampi senza un'evidente impronta stilistica. C'è soprattutto la presa di coscienza, finalmente (ed è qui che Malick secondo me fallisce), dell'impotenza dell'immagine di fronte alle profondità e al vuoto della mente.
Perché The Master è un film sulla follia come sguardo sulla realtà e sulla follia come risultato di un nulla che genera il male e l'ordinarietà delle persone. Nonostante i sogni del mistico intellettuale del titolo, alla fine di ogni uomo non ci sono milioni di anni, non ci sono ricordi traumatici o vite precedenti, ma un eterno presente mosso da bisogni corporei e materiali, c'è l'allievo del maestro che usa le sue teorie per scopare, che non sa fare altro che menare le mani, distruggere una cella, mandare affanculo, fottersi un manichino di sabbia, che desidera vivere una vita libera che in realtà libera non è, perché fatta non di viaggi, di assenze di catene, di sogni in Cina, ma di nulla, di spazi vuoti, di un campo dove correre, di un deserto dove viaggiare a vuoto verso un punto perduto nell'orizzonte. Nell'unico momento in cui il guru Lancaster Dodd apre la testa malata di Freddie Quell Anderson trova una sequenza di cinema puro e potentissima, un campo e controcampo di primi piani, squarciato dai ricordi di Freddie (ricordi non di una vita passata, ma di un rimpianto sentimentale, l'unica sensazione che spezza il vuoto pure delle canaglie). Niente carrelli, niente steadycam, niente luci riflesse, ma una macchina a mano che si muove dolce e lenta, quasi fosse oggettiva, quasi non volesse violare l'intimità dell'unico momento vero nella vita di un uomo qualunque e sbagliato. Forse mi sbaglio, ma nell'incontro tra questi due corpi, grazie anche a due attori giganti come Saymour Hoffman e Phoenix, nel cinema che si espande solo attraverso di essi, e non in virtù di una visionarietà a cui non ha più diritto, ci ho trovato la sola risposta possibile alla vuotezza di immaginario a cui ci siamo condannati e alla quale lo stesso Malick non ha saputo opporre resistenza. E che invece Anderson realizza con uno sguardo che si contrae, che scruta dentro se stesso, siccome là fuori c'è solo più il vuoto

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