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Venezia 70 - La moglie del poliziotto

Creato il 31 agosto 2013 da Robomana
Venezia 70 - La moglie del poliziotto Ieri sera è passato in concorso il film parecchio disturbante di Philip Gröning, Die Frau des Polizisten. Ne ho scritto per Cineforum e il pezzo lo trovate qui oppure qui sotto, se vi va.
Anfang, cioè inizio. Ende, cioè fine. Apertura e chiusura, dentro e fuori, prima e dopo, sopra e sotto. Così, meccanicamente, come un telaio che ripete la stessa operazione fino a tessere la tela, Philip Gröning costruisce la trama del suo Die Frau des Polizisten. Al centro c’è l’orrore della violenza domestica, le percosse di un marito poliziotto alla moglie e la coercizione psicologica della loro bambina di quattro anni. Ma in realtà al centro di Die Frau des Polizisten non c’è nulla, perché Gröning differisce la sua stessa trama, gioca di sottrazione fino ai limiti del divertimento, sceglie soprattutto di restare sulla soglia: di un racconto, che dei suoi 59 capitoli coglie solamente l’anfang e l’ende, le cause e le conseguenze, mai l’evento in sé; di una casa, filmata come luogo distante e impossibile, angusto oppure gigantesco, innaturale oppure accogliente; di una famiglia, di cui si osserva la progressiva distruzione come evento puro e immutabile. Tutto quanto – il racconto, la casa, la famiglia – è lì di fronte, esposto nella sua evidenza, ma il film non può coglierlo. Osserva per tre ore banali situazioni domestiche (dormire, svegliarsi, lavarsi, mangiare, giocare) e a ogni passaggio, senza che nulla apparentemente cambi, con i soli lividi sul corpo della donna a urlare segnali muti, rende esplicito un dolore mai mostrato. Per Gröning l’iperrealismo è una questione di dimensioni, la sua messinscena non concede appigli, sfugge a ogni tentativo di essere afferrata; come una scultura a forma umana di Ron Mueck provoca disagio percettivo, così realistica da porsi come specchio, così sproporzionata da disturbare il corpo prima ancora che l’occhio. Non a caso Die Frau des Polizisten è un film di oggetti, di coperte, di lenzuola, di divani, e di sensazioni fisiche, di puzza, di paura che si odora, di sangue che scorre sotto la pelle e di lividi che crescono sopra la pelle. Dentro, però, non si entra mai, dentro non si può entrare: lì l’orrore sarebbe intollerabile, impossibile da reggere. Come gli occhi di una bambina che ti fissano vuoti e interrogativi.

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