Anno: 2013
Distribuzione: Movies Inspired
Durata: 90′
Genere: Drammatico, Thriller
Nazionalità: Corea del Sud
Regia: Kim Ki-Duk
Data di uscita: 5 Settembre 2013
Decisamente e indiscutibilmente una tra le proposte più difficili, quasi persa, della carriera del maestro coreano, già Leone d’Oro l’anno scorso per un film dai regimi estetici nettamente più elevati. Eguagliare Pietà, un’opera cruda che tuttavia aveva messo d’accordo appassionati e critica, svelando contemporaneamente l’esteta e il persecutore che è nel regista, era una sfida persa in partenza.
Moebius, infatti, sembra pagare un tentativo di cucinare troppo nella stessa pentola. Nella nuova opera di Kim Ki-Duk troviamo tutto: sesso, ossessione, evirazione, incesto, stupro, bullismo, suicidio, cannibalismo, dolore e follia. Una ricerca forse filosofica, forse freudiana o forse disperata; oppure un tentativo di approdare ad una sofferenza assoluta, ad un male nella sua forma più acuminata, per sottoporre ad una prova definitiva l’essere umano; ma anche probabilmente una sfida a tutti i tabù indotti dalla società. Non stupisce quindi che la Corea abbia risposto a questa sperimentazione spietata con due minuti e mezzo censurati.
Visivamente quest’opera non trascina quanto aveva fatto il suo Leone d’Oro, né emotivamente affascina come le opere dell’ascesa (Ferro 3 o Primavera, Estate, Autunno, Inverno…e ancora primavera); non cattura e tortura finemente come La Samaritana o L’arco: più che altro trita le budella come carne da ragù sin dai primi minuti, confonde e ubriaca perché mentalmente non ci conduce a nessuna soluzione, se non forse nel rapporto di sacrificio estremo padre-figlio.
I protagonisti sono tre personaggi molto introversi, ovvero muti (in questo, il regista ritorna ai ritmi vincenti del suo cinema del silenzio), che si trovano invischiati in uno sfogo di vendette scatenato dal tradimento del padre. La madre tenta di evirarlo, ma poi si rivolta contro il figlio che, nel suo picco ormonale adolescenziale, leggeva in tutt’altro modo la scappatella del padre. Questi decide di farsi carico della croce del figlio ingiustamente mutilato e fagocitato dalla sua procreatrice, evirandosi chirurgicamente a sua volta e salvando il membro per un impianto. Il ragazzo, disturbato dagli eventi, si infila subito nella prima banda di spostati che lo avvicina, e si lascia trascinare altrettanto in fretta nella mascalzonata di gruppo: stupro collettivo al quale lui partecipa fintamente poiché privato del mezzo. Si salva dalla prigione solo dopo aver perso la faccia davanti a tutto il distretto di polizia, a mutande calate.
Già fino a qui, lo svariato pentagramma di suoni emessi dalla platea mostrava come il pubblico stesse brancolando nel buio.
La seconda parte della storia è trainata da un parallelismo tra dolore estremo e piacere dove i due uomini si gettano per ritrovare la serenità ormonale: con masturbazioni di pugnali e sfregamenti di pietre, i due ritrovano un linguaggio segretamente condiviso e una sottospecie di serenità fisica. Fino a quando la madre ricompare e decide di trovare una sua strada per riconciliarsi con il figlio, di cui, ricordiamo, ha staccato i genitali all’inizio del film e ne ha fatto un sol boccone.
Certo che, così esplicitata, sembrerebbe la trama di un B-movie. Tuttavia, la regia è sempre quella di un grande autore, e quella sua intramontabile abilità espressiva che sorpassa ogni comunicazione verbale è talmente evoluta che rende poetica ogni gestualità, persino la meno credibile.
Ciononostante, è proprio questo dettaglio che è mancato e ha reso la visione davvero imbarazzata: questo film non è all’altezza della credibilità di cui Kim Ki-Duk gode.
Rita Andreetti