Anno: 2014
Durata: 90′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Russia
Regia: Andrei Konchalovsky
L’analisi dell’uomo moderno in questa edizione del festival (nella sezione del concorso e per i film seguiti) ha trovato due estremi: uno in Nobi di Tsukamoto (mettere il link al pezzo) nell’alienazione di una civilizzazione che ha staccato totalmente l’uomo dalla natura rendendolo sterile a se stesso, l’altro nella luce (dagli svariati riflessi ed ombre) di un vivere ormai sempre più raro e rado in connubio con la natura, che il brioso occhio di Andrei Konchalovsky ci offre nel cantico di un postino e della piccola comunità di un lago nel Nord della Russia. The Postman’s White Nights, in concorso, è una bella favola totalmente reale, nata da una domanda che il regista si è posto…“Il corso della vita di quale persona vorrei seguire?” e dalla lettura di un articolo dove si parlava di un postino che lavorava nella provincia russa e di come il numero dei villaggi in Russia si era ridotto in 5 anni di ben 17mila unità. Di come in quelli rimasti la gente vive come se fosse fuori dello Stato, per mancanza di collegamenti. Nella incredibile convivenza tra sviluppo tecnologico, lancio di missili nello spazio e pezzi di Russia dove il tempo pare essersi fermato, Konchalovsky si è messo con tenacia alla ricerca del ‘suo’ postino, di chi potesse incarnare quel misto di ironia, ingenuità, ‘purezza’ in totale via di estinzione, e della sua gente, quella comunità che sopravvive grazie a lui, che non porta solo la posta e distribuisce le pensioni, ma fornisce viveri, medicine, combustibile, ne permette la sopravvivenza.
Nell’incredibile scenario naturale del Parco Nazionale di Kenozero, sulle rive del suo splendido lago, la macchina da presa segue un pezzo di esistenza di Lyokha, il postino che tiene unita la piccola comunità alla ‘terraferma’. Konchalovsky ha voluto mantenere sulla carta un impianto documentaristico, e nell’adoperare gente del luogo e nell’evitare una sceneggiatura predefinita. Tutto andava ripreso e catturato in divenire, costruendo sulle normali vicissitudini quotidiane il canovaccio-impronta da sviluppare. Il risultato è un incredibile prisma visivo e umano, dove l’aura documentaristica cede il passo ad una vestizione di pura fiction. E’ un film a tutti gli effetti, in primis per il sapiente e perfetto uso della macchina da presa: la realtà viene portata completamente fuori, vivida e tangibile in tutti i suoi aspetti e umori: negli interni ad ‘effetto Gulliver’ dai tagli alti ed angolari delle abitazioni in legno, nei sopralluoghi di incanto ad altezza barca sui colori, il silenzio, la calma dell’acqua lacustre… Tutta la bellezza della natura è esibita regalandoci uno sguardo purificato e rinnovato nella meraviglia che la macchina da presa è capace di generare.
La stessa condizione umana riesce a tratteggiarsi in una molteplicità di sfumature: anime congiunte, disgiunte, che accettano la loro vita con ‘naturale rassegnazione’ e maturità (come Bombolone, uomo schiavo della vodka, abbandonato in un orfanatrofio dalla madre povera), o portando il peso perenne di una malinconia che non si sa da dove viene e perché non è possibile estirpare via. La tv sintonizzata sullo stesso canale da tutti gli abitanti, che scandisce il legame con l’altro mondo, così lontano e ‘incolore’, catturata con una Red che radiografa ambienti e corpi come entità a se stanti. E poi i dialoghi così autentici, briosi, così ‘pazzi’ nell’esperienza che condensano, come la simpatica litania erotica del vecchio pescatore che in guerra, da giovane, aveva infranto molti cuori asiatici. In questo universo dove il senso di comunità è così necessario per la sopravvivenza di tutti, il postino Lyokha è il perno attorno al quale tutte le piccole vite girano e la sua stessa ha un senso. Nel suo amore verso Irina, la bella e procace amica di infanzia separata con un figlio, che approfitta della ingenuità e bonarietà di Lyokha, nelle vicissitudini del suo piccolo motoscafo necessario e alla sua sopravvivenza e a quella del villaggio, l’ex bevitore di vodka Lyokha sperimenterà una crisi di identità (metaforicamente rappresentata da un bellissimo gatto grigio che gli compare all’improvviso), che lo porterà a capire quanto la sua vita lacustre sia la culla più bella e protettiva di qualunque evasione cittadina. E noi con lui.
La immaginazione che Konchalovsky accende col suo occhio mobile, penetrante, vivido e vivace, tecnicamente alto nell’usufruire di tutte le possibilità visive scardinatrici-penetrative nell’attenzione e nella meraviglia, accompagnato da una alta capacità di osservazione dell’essere umano e di ciò che lo circonda, ne fanno un autore visivo di estrema levatura. Mi auguro vivamente che The Postman’s White Nights si porti a casa un premio alla regia. Lo sapremo a breve…
Maria Cera