Hungry hearts, pur girato da un italiano, non ha il sapore di un film italiano. Per fortuna. Perché Saverio Costanzo, che ha studiato cinema in America, è il meno italiano dei nostri registi. E Hungry hearts è un film dal passo europeo. Costanzo ha la fame di osare, provocare, proporre qualcosa di nuovo. E’ così che la distorsione mentale dei due protagonisti (lei più che altro!) viene resa con l’uso invasivo di fish-eye e GoPro in interni, come a sottolineare lo straniamento che rovinosamente li colpisce. Una trovata barocca, un po’ manierista un po’ pop, che perfettamente si addice all’estro e all’ego smodato di Costanzo, già noto a chi nel 2010 vide La solitudine dei numeri primi. A questo Costanzo aggiunge poi una colonna sonora che strappa applausi sin dalla prima “traccia”, poiché riporta on screen quel mostro sacro di What a feeling per eternizzare l’idillio amoros dei due sposi novelli.
La descrizione dei due personaggi protagonisti è portata avanti da una sceneggiatura che, dialogo dopo dialogo, mette a nudo la loro psiche e la loro anima, così vicine e così lontane. La Rohrwacher, ormai lo sappiamo (vedi ad esempio Il papà di Giovanna), è brava, intensa, credibile nella parte della matta. Notevole al suo fianco la prova di Driver nei panni di un marito e papà amorevole, paziente, ma anche esasperato e capace di guardare, a differenza della moglie, oltre il proprio naso.
Insomma, Hungry hearts è un drammone familiare che coinvolge, disturba e fa riflettere su una “moda alimentare” sempre più diffusa e sugli effetti collaterali che può provocare se seguita con fare fondamentalista. Ma soprattutto un film per chi è affamato di un cinema che sa raccontare una storia a noi vicina con un gusto estetico fuori dal coro.
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