veniamo a prenderti

Creato il 25 ottobre 2011 da Plus1gmt

Te lo ricordi l’Alberto? Se tu fossi di Milano me l’avresti chiesto così, ma sei esposto a ben altre parlate e l’articolo prima del nome proprio maschile ti suona strano. Comunque sì, l’Alberto certo che me lo ricordo, e come potrei dimenticarlo. Una vita in bilico come un equilibrista neofita su una ringhiera, sempre a ridosso del pericolo ma anche del rifugiarsi al di qua e salvarsi, se solo avesse voluto. L’Alberto mi ha portato fino a non ricordo dove vicino a Firenze a vedere i New Order nella notte dei tempi, quella volta in cui durante il viaggio di ritorno ho salvato la pelle di entrambi perché ho retto il volante, malgrado non avessi ancora la patente, per un centinaio di metri sulla statale a qualche chilometro da casa. L’Alberto era collassato mentre guidava e non so come ho fatto a portare la macchina al sicuro, in una corsia di sicurezza, e a svegliarlo. Non mi ero accorto durante il concerto di cosa si era fatto, ma era facile intuirlo. Fatto sta che da lì ha inanellato un curriculum di esperienze tra la vita e la morte mica male, culminato con un tentato suicidio da non credere. Giù dal terzo piano per cadere su un balcone al primo piano, di nuovo in piedi e giù anche dal primo piano sul cortile sottostante. Ma l’Alberto era massiccio come un wrestler, si direbbe oggi, e fortunatamente si è solo spaccato qualche articolazione lasciando illesi organi vitali.

A quel punto la psichiatria è entrata pesantemente nella sua vita, con le famose goccine della salvezza, un preparato che ha reso l’Alberto un gigante buono, con una patina davanti agli occhi di assenza e un sorriso ebete interpretabile come “posso manifestare violenza omicida e fare una strage da un momento all’altro”. E quella volta in cui ha scalato la dose di goccine della salvezza, il giorno dopo l’Alberto è stato ritrovato addormentato in macchina in un’area di servizio nei pressi di Barcellona. Probabilmente ha guidato tutta la notte per arrivare in un punto non definito della sua testa. Almeno ha avuto l’accortezza di fare una sosta ristoratrice per mettere la sua incolumità al riparo dai colpi di sonno.

L’Alberto mi raccontava della sua infanzia trascorsa molto con i nonni e poco con i genitori. I nonni lo portavano con sé nella loro casa di campagna il giorno dopo la fine della scuola e si prendevano cura di lui per tutta l’estate fino all’ultimo giorno di vacanza, quando tornavano in città e l’Alberto entrava in casa e trovava, sul tavolo del salotto, tutti i libri e i quaderni e gli articoli di cancelleria necessari per l’anno che avrebbe iniziato il giorno successivo. E, durante i mesi estivi, mamma e papà lo andavano a trovare tutti i fine settimana. Arrivavano il sabato nel tardo pomeriggio per ripartire la domenica dopo cena.

L’Alberto aveva l’abitudine di aspettarli seduto in un prato sulla collina su cui si ergeva la casa dei nonni, un punto da cui si vedeva lo scorcio della strada comunale che dalla città porta al paese di villeggiatura. Stava lì in trepida attesa fino a quando vedeva materializzarsi la gigantesca berlina marrone scuro del padre, seduto tra la nonna e il nonno e il cane dei vicini che, in estate, si trasferiva da loro. Me lo immagino saltare su e gridare un “arrivano!”. Quindi correre verso il cancello della cascina a contare i secondi e i metri che mancano fino a quando sente il rumore dell’auto, l’unico nel silenzio bucolico della sera, e poi ad abbracciare i genitori un’altra volta ancora, godersi gli spiccioli di affetto paterno e materno e fare il pieno per la settimana a venire.

Commovente, vero? E non è tutto. L’Alberto, qualche mese fa, un bel sabato mattina sparisce. L’anziana zia che gli fa da tutor e, perdonate il gioco di parole, gli fa tutto da quando i genitori non ci sono più, si preoccupa – giustamente – e mobilita i colleghi della cooperativa sociale in cui lavora il nipote e i pochi amici per mettere insieme qualche indizio. La vita dell’Alberto è sicuramente meno turbolenta di un tempo, anzi, è praticamente ridotta a routine tutt’altro che pericolose e tentacolari. La sparizione getta un po’ tutti nel panico. Fino a quando, la domenica mattina, la vecchia zia riceve una chiamata da uno sconosciuto. Si presenta come il proprietario della cascina di campagna che una volta era appartenuta alla famiglia dell’Alberto, già il secondo acquirente dopo che era stata venduta la prima volta alla morte dei nonni. L’uomo racconta di essere stato svegliato in piena notte dal cane, di essere uscito e di aver notato un’ombra nel buio, una figura seduta sul prato davanti, al limite dell’erta. L’Alberto era sveglio e tutto intirizzito, la sigaretta in bocca, e ha chiesto se, malgrado la proprietà privata, poteva rimanere lì fino all’arrivo dei genitori.



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