A proposito di contributi pubblici all’editoria. Diceva quel tale: non c’è mai tempo per farlo giusto, ma c’è sempre tempo per farlo ancora. Ed è quello che accade con le provvidenze all’editoria, concesse a pioggia non potendo (o non volendo?) essere
”Venite, e vi farò pescatori di giornalisti”
opportunamente selezionate al momento dell’erogazione. Il vero problema dell’editoria, sempre più in crisi (specialmente sul versante della carta stampata), è che non può mantenersi solo con le vendite e la pubblicità. Esempi in controtendenza, virtuosi, ci sono: il “Fatto quotidiano”, è noto, non riceve alcun finanziamento pubblico. Mi risulta sia l’unico, ma se anche fosse in buona compagnia si tratterebbe di mosche bianche. Il “Fatto” può permetterselo. Ha tra le sue fila ottimi giornalisti che – grazie anche alla possibilità di apparire spesso in video – godono di un buon seguito. Ed ha una linea che in tempi di anti-politica montante paga assai.
Il discrimine, finanziamento sì finanziamento no, sta però tutto qui: l’editoria va equiparata ad una qualsiasi attività commerciale? Se sì, allora è giusto che sul mercato sopravviva solo chi riesce a stare in piedi con le proprie forze. In caso contrario, se viene invece considerata un’attività culturale, in un discorso più ampio di garanzia del pluralismo nell’informazione, beh, allora va sovvenzionata. Aiutata. Ma non indiscriminatamente, bensì – e qui sta la vera difficoltà, l’ostacolo che non si è ancora riusciti a scavalcare – andando a vedere caso per caso, giornale per giornale, rivista per rivista, quale prodotto arriva in edicola e quale no, quante copie vende, quante persone ci lavorano, qual è la sua ragione sociale. Solo in questo modo le realtà sane e oneste possono continuare a vivere (anche se spesso fra stenti e con giornalisti sottopagati) mentre quelle viziose (penso ad assurde riviste di settore che dalla stamperia finiscono direttamente al macero senza che nessuno le prenda in mano) sono destinate a scomparire. I soldi vanno dati solo a chi li merita. A chi ne fa buon uso. E’ un impegno improbo. D’altronde una pipa dà al saggio tempo per riflettere e all’idiota qualcosa da mettere in bocca.
Don Pizzarro
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