Perché l'Unione Europea può diventare una 'rovina' nuova di zecca
- La disintegrazione statale e monetaria oggi si vede in molti paesi-
di Robert Kurz
Spesso il linguaggio politico utilizza concetti che, come nell'utopia negativa '1984' di George Orwell, significano esattamente il contrario di quello che sembrano indicare. In tutta Europa, si parla parecchio di integrazione europea. Il vecchio processo di auto-laceramento nazionalista del vecchio continente dev'essere alla fine risolto per mezzo dell'unità europea, che già sognavano i filosofi dell'Illuminismo. Questa è musica per le orecchie. E infatti ci sono l'Unione Europea (UE), la Commissione Europea a Bruxelles, il Tribunale Europeo in Lussemburgo ed altre istituzioni unitarie. Siamo, finalmente, sulla strada dell'integrazione?
In realtà, l'entusiasmo per l'Unione Europea è diminuito secondo il capriccio della situazione. L'ultimo rapporto della Commissione Europea dimostra che, negli ultimi due decenni, la crescita media nella UE è scesa dal 4% al 2,5%, mentre gli investimenti hanno sofferto di una decrescita del 5%. Sullo sfondo della fragilità economica, le contraddizioni della costruzione europea diventano sempre più chiari.
Gli architetti dell'integrazione hanno costruito una "rovina nuova di zecca". In Europa non c'è un potere politico in grado di attuare solo uno dei suoi piani. Il risultato degli innumerevoli compromessi ha assunto la forma di un essere ibrido, che non è un sistema di relazioni bilaterali né un vero Stato paneuropeo. La Commissione Europea non è stata investita dello status di governo, ma agisce come una sorta di governo parallelo, in quanto i ministri dei governi nazionali ancora esistenti si riuniscono in consiglio e raramente arrivano ad un accordo o a decisioni chiare.
Assistiamo allo stesso problema anche a livello di economia. Da un lato, le vecchie economie nazionali sono ancora vive; dall'altro, però, devono essere create delle istituzioni economiche e politico-finanziarie comuni che vadano oltre la mera zona del libero commercio, come il NAFTA o il Mercosur. Ciò vale soprattutto per l'installazione pianificata di una moneta europea unica. "Ecu" o "Euro"?
Il 10 dicembre del 1991, venne firmato a Maastricht l'accordo per creare una unione economica e monetaria europea. Tale accordo prevede che le monete nazionale siano sostituite dalla moneta europea in tre tappe, entro e non oltre il 1° gennaio del 1999. Ma, mentre il disegnatore traccia i primi schizzi della nuova valuta, e rimane ancora controversa la questione se il nome della moneta sarà "Ecu" oppure "Euro", viene messo in dubbio il progetto nel suo insieme, sotto ogni aspetto. Il disordine è grande; nessuno sa più per certo chi di fatto sia contro o a favore.
La confusione è stata causata dagli stessi autori del progetto. Il fatto che una Banca Centrale venga creata come istituzione politico-finanziaria senza che siano stati delineati i contorni di un corrispondente potere politico, è una contraddizione in termini. La moneta europea sarebbe la prima moneta nella storia a non essere vincolata ad un vero e proprio potere statale.
L'unione politica, come fattore di potere, rimane debole ed inefficace, ma anche così si vuole creare una moneta comune. Questo è promettente più o meno quanto dare inizio alla costruzione di una casa, non a partire dalle fondamenta, ma dal tetto. La mancanza di una base politica indica l'assenza corrispondente di una base economica.
Le diverse forme statali di moneta come il dollaro, il marco tedesco, ecc., non sono altro che "nomi" per designare un determinato livello di capacità economica nazionale. Una moneta rappresenta, sia in termini interni che esterni, la potenza reale dell'economia di una certa regione delimitata dallo Stato. Questo è possibile soltanto quando gli indicatori economici della regione delimitata dalla sua rispettiva moneta si situano approssimativamente allo stesso livello. Tali indicatori sono soprattutto la produttività, l'apporto di capitali e il livello salariale.
In ogni Stato dove si sviluppa una disuguaglianza economica molto accentuata, prima o poi la base dell'economia nazionale, l'unità dello Stato e infine la stessa moneta comunitaria vengono necessariamente messe in discussione. La Jugoslavia è un classico esempio per illustrare questo problema. Quando la disparità economica fra le repubbliche del nord (Slovenia e Croazia) e le repubbliche del sud (Serbia, Bosnia e Macedonia) sono diventate molto grandi, il movimento separatista ha avuto il suo primo impulso e lo Stato in quanto totalità è stato messo in discussione.
Le repubbliche più sviluppate del nord non erano d'accordo nel compensare la disparità e nel sopportare il peso della continua ripartizione dei redditi. Oggi, nella regione della vecchia Jugoslavia, non ci sono soltanto differenti Stati, ma anche differenti monete. La grande disparità di livello economica ha trovato espressione politica e monetaria. La moneta non può ostentare il medesimo nome per le differenti regioni economicamente devastate; ogni Stato ora possiede un nome specifico per la sua propria moneta. E, evidentemente, il nome della moneta nelle regioni con una maggior produttività è (relativamente) "migliore", come ad esempio il tallero sloveno; al contrario, il dinar serbo designa ora il nome "cattivo" di una moneta povera ed inflazionata.
Oggi, questo fenomeno di disintegrazione statale e monetaria si è verificato in molti paesi. La ragione è semplice: il processo di razionalizzazione e globalizzazione, oltre ad escludere ed "eliminare" un numero sempre maggiore di persone, fa sì che la questione si traduca anche in termini di conflitto regionale.
In maniera analoga alla Jugoslavia, in molti Stati esiste già una tradizionale disuguaglianza economica fra regioni contrastanti che tende ad aumentare con la recente evoluzione del mercato mondiale. In Italia, per esempio, la Lega Nord rappresenta lo sforzo di separazione fra le regioni industriali del Nord ed il modo di produzione agrario del Sud; cosa che ha portato il leader del movimento a proclamare, in tono perentorio: "A partire da Roma, per me inizia l'Africa".
Allo stesso modo, in Cina c'è la minaccia di un conflitto fra le province costiere, in cui si concentra la maggior parte dell'industria dei beni per l'esportazione, e le province dell'interno, sempre più arretrate economicamente. Vi è un nucleo di razionalità economica, nei movimenti "etnici" e separatisti di natura irrazionale che attualmente infestano il globo; il risultato non sono solo Stati sempre più piccoli, ma anche un numero sempre maggiore di monete, delle quali gran parte è estremamente debole.
La differenza delle valute costituisce una sorta di ammortizzatore, o valvola di sicurezza, per compensare (almeno in parte) la differenza di livello economico. La moneta di un paese a bassa produttività diminuisce il suo valore quando viene contrapposta alla moneta di un paese ad alta produttività e con un volume maggiore di capitale. Per mezzo del tasso di cambio, pertanto, le esportazioni dei paesi economicamente più forti mantengono elevati i loro prezzi, e quelle dei paesi economicamente più deboli mantengono ridotti i loro prezzi.
Questo permette che il paese più debole, nonostante la disuguaglianza economica, si mantenga concorrenziale nell'esportazione dei prodotti industriali. Allo stesso tempo, il suo mercato interno è parzialmente protetto contro l'importazione di merci dei paesi più forti. Sia nella produzione volta all'esportazione, quanto nella produzione per il proprio mercato interno, la valvola di sicurezza del tasso di cambio può garantire l'occupazione nei paesi a bassa produttività.
Ma il tasso di cambio assume una funzione di valvola compensatoria anche in senso opposto. I salari nei paesi economicamente deboli sono molto bassi. Sorge allora per gli imprenditori dei paesi con una grande importazione di capitali e con un livello elevato dei salari, lo stimolo a trasferire i settori di produzione la cui manodopera è intensiva per i paesi dove i salari sono minori. Questa tendenza è frenata, però, dal fatto che la moneta dei paesi con salari bassi soffrono di successive svalutazioni in rapporto alle monete dei paesi economicamente più forti e con salari elevati. Per le imprese multinazionali, questo significa che il guadagno dei salari può essere annullato per mezzo della perdita nel tasso di cambio. In questo modo, la valvola del tasso di cambio protegge anche una parte dei posti di lavoro nei paesi con salari alti.
Tutto ciò, ovviamente, ha una validità solamente relativa. La pressione della globalizzazione è forte abbastanza da minacciare il funzionamento del tasso di cambio. Ma è ancora peggio quando questa valvola di sicurezza viene distrutta apposta. E questo è proprio il caso dell'unione monetaria europea.
All'interno dell'Unione Europea, la disparità economica è grande. Il prodotto interno lordo pro capite, espresso in miglia di unità dall'ipotetica moneta europea, ha raggiunto nel 1994, in Germania, la cifra di 21,2, in Francia di 19,6, in Italia ed in Inghilterra di 14,7, di 7,7 in Grecia e di 7,5 in Portogallo.
Se i paesi dell'Est europeo come la Polonia, la Repubblica Ceca e l'Ungheria, in futuro si uniranno al gruppo, la disparità sarà ancora più evidente. E' un assurdo: mentre in diverse parti del mondo lo squilibrio economico porta alla disgregazione degli Stati ed alla loro disintegrazione in più regioni monetarie, l'Unione Europea - la cui esistenza politica è un'incognita - vuole imporre una moneta comune a più di una dozzina di paesi con livelli di sviluppo economico assolutamente diversi.
Un modello negativo di questo esperimento è stata l'unificazione delle due Germanie. La più debole economia della vecchia Repubblica Democratica Tedesca è stata incorporata dalla notte al giorno nel marco tedesco. Tutti i costi ed i prezzi hanno dovuto essere designati col nome della moneta vincolata ad un livello di produttività essenzialmente più alto. In pochi mesi, tutta la produzione del settore orientale ha perso circa l'80% del suo potere di concorrenza, sia nell'esportazione che nel proprio mercato interno. Si sono persi milioni di posti di lavoro.
Gli imprenditori occidentali, d'altro canto, hanno trasferito parte della produzione in Germania Orientale, al fine di approfittare di salari bassi e delle sovvenzioni del governo tedesco. Nel computo finale, entrambi i paesi hanno perso reddito e posti di lavoro, e la parte orientale è stata quella più compromessa. Per evitare una catastrofe economica, il governo è stato costretto a trasferire 150 miliardi di marchi l'anno alla Germania Orientale ed a gravare in tal modo sull'equilibrio dei mercati nazionali ed internazionali.
Ed ora intendono trasporre questo modello a tutta l'Europa! La moneta europea deve essere stabile almeno quanto il marco tedesco. Ciò significa che la nuova moneta dovrà riflettere un livello economico che la maggioranza dei paesi membri non possiede. Quali saranno le conseguenze? Lo stesso problema che è sorto nella moneta tedesca, con l'incorporazione dell'economia dell'Est, si ripeterebbe a livello di Unione Europea. La questione sarà ancora più delicata, in quanto la capacità economica di, ad esempio, l'Irlanda, il Portogallo o la Grecia è più basso del livello della vecchia Germania Orientale. Gran parte dell'economia europea vedrà minacciata la sua esistenza. Per evitare rivolte nelle varie regioni in difficoltà, la Commissione Europea dovrà distribuire fondi in proporzione inimmaginabile. L'emissione di crediti, oltre a sovraccaricare i mercati finanziari del mondo, destabilizzerà la stessa politica monetaria di una Banca centrale europea ed indebolirà rapidamente la nuova moneta. Anche in Germania, una politica che vuole implementare la stabilità delle finanze ed allo stesso tempo promuovere l'integrazione delle due regioni con livelli economici del tutto diversi, può portare soltanto all'assurdo.
Tranne che in Lussemburgo, entrambi gli intenti, simultaneamente sono impossibili. Ne è prova il fatto che nemmeno la Germania, a causa dei costi della sua unificazione, soddisfa più i "criteri di stabilità" richiesti dalla moneta europea. Tali criteri si limitano alla contrazione annua del debito al 3% e al debito totale al 60% del PIL. Nel 1995, con un importo del debito del 3,6%, la Germania non ha adempiuto né adempirà all'accordo nei prossimi anni. Sta qui l'ironia: ad eccezione del minuscolo Granducato del Lussemburgo, nessun paese è in grado oggi di rispondere ai criteri di stabilità imposti dall'UE.
Chi è interessato ad un esperimento così rischioso come quello dell'unità monetaria europea? In primo luogo, la casta politica che, come il cancelliere tedesco, è economicamente ignorante, ma che ha pretese storiche e proclama ai quattro venti che i numeri dimostrano la sua tesi.
In secondo luogo, i "global players" delle grandi imprese, che forse sperano, con l'aiuto della moneta europea, di trarre pieno vantaggio dai costi senza l'intralcio del tasso di cambio, al fine di unire le forze contro la concorrenza del mercato mondiale. La loro opzione, pertanto, sarebbe niente di meno che una "fortezza Europa" - nuova tappa della "globalizzazione verso l'interno", a spese di una segregazione economica e sociale ancora maggiore nei confini dell'UE.
Evidentemente, non è chiaro per gli imprenditori che sarà necessaria una dittatura militare europea per far valere una simile opzione. L'istanza politicamente debole della Commissione Europea non sarà mai in grado di manovrare una grave crisi economica, sociale o finanziaria come quella che verrà scatenata dalla moneta europea. I governi nazionali, tuttavia, devono affermare la loro presenza davanti agli elettori. Come reazione delle masse ad una crisi europea, c'è da temere una nuova ondata irrazionale del vecchio nazionalismo. Il sogno dell'integrazione europea, o rimane sterile sul terreno dell'economia di mercato oppure si trasforma in incubo.
E ora si capisce perché il linguaggio politico dell'unione economica e monetaria europea può essere soltanto un linguaggio orwelliano: "stabilità" significa destabilizzazione ed "integrazione" significa disintegrazione. Nel frattempo, molti hanno messo in guardia rispetto al pericolo. In realtà, la nascita della moneta europea è un aborto.
- Robert Kurz - pubblicato su "Folha de São Paulo" nel 1996 -
fonte: EXIT!