Fu in quel preciso istante, a una settimana e uno sputo dal quinto anniversario della morte di mio padre, che crollò una delle più ferree certezze che avessi mai avuto nella vita.
Furono le persone attorno a me, a farmelo capire.
Ma attenzione: non gli amici più stretti, non una fidanzata, non un parente.
Erano gli altri, tutti quelli che conoscevo da non più di un sorso di vita, gente con cui, fino ad allora, avevo avuto a che fare più o meno quanto la Marini con la meccanica quantistica.
E fu proprio quando loro iniziarono a dirmi ué, maè tuttappòsto, checciài, qualcosachenonvà, tivedostràno, fu proprio allora che capii che si vede.
Si vede, l’enorme ferita che mi porto dentro, si vede quello squarcio brutale che mi spacca l’anima a metà, si vede quell’enorme cicatrice che mi rende così inquieto, e che faccio di tutto per occultare.
Ché, fino ad allora, pensavo di esserci riuscito abbastanza bene.
Tanto che mi ero convinto che bisogna.
Bisogna passare attraverso tutti gli stadi del cancro di tuo padre, dal cià untummóre all’èppìccolo, al sipuoccuràre, al s’è riformato, al dobbiamo operare di nuovo, al ciaqquàttro mesidivìta, per arrivare al crudo, acido.
Èmmòrto.
Bisogna passarci per capire come tutto il resto, tutto quello che viene dopo la parola càncro, perda immediatamente di significato e di valore, per capire come l’esistenza del cancro sia così tentacolare da coprire ogni altro spiraglio, ogni altra possibilità, da coprire anche la tua stessa, fottuta vita.
Così che, senza rendertene conto, ti ritrovi a mangiare cancro a colazione, a prendere il cancro per andare al lavoro, al guardare il cancro in televisione.
E come ho fatto, come ho fatto a pensare di nasconderlo, quando alla fine il cancro ero diventato io.
Bisogna, dicevo.
Bisogna vedere la persona che ti ha imboccato essere imboccata a sua volta, per capire.
Bisogna toccare con mano la brutale standardizzazione dell’umanità, quando essa stessa è vicina alla morte, bisogna vedere il prete a dire messa personale ogni pomeriggio, a dare l’estrema unzione, bisogna vedere l’infermiera cambiare la flebo, bisogna imparare a convivere con un senso di fine imminente e inquietante, bisogna vedere noi stessi muoversi come topi ciechi in un labirinto, alla ricerca di una risposta, qualunque essa sia, questa risposta, bisogna capirci tutti uguali e soli, di fronte al dramma insolubile della morte.
Bisogna viverla, la vita che si vive in attesa di quel momento.
Bisogna vivere anche la vita dopo, tutta quella che viene dopo quel momento, quella vita che, in un modo o nell’altro, resterà per sempre, almeno in parte, quel momento, quel fottuto momento in cui ha iniziato a vomitare l’anima, in cui l’ha vista sgretolarglisi davanti, quel momento in cui sembrava volersi aggrappare con le poche forze rimaste a quel barlume di vita che gli rimaneva.
Bisogna toccarle, quelle labbra gelide, bisogna scriverle, quelle lettere da portare in grembo, bisogna vederla, tua madre, vederla spezzata a metà, vederle rubato l’ottantapercènto di ciò che aveva avuto fino ad allora.
Bisogna sentirlo squillare, quel telefono alle tre di notte, quel telefono che porta l’annuncio di morte.
Quel ventiggennàio che rimarrà il ventiggennàio di ogni anno, il ventiggennàio di tutta la vita, o ancora, quella vita che da allora e per sempre sarà quel ventiggennàio.
Bisogna averlo dentro, questo dolore, per capire che è troppo poco invidiabile per comunicarlo agli altri, anche solo per dimostrarne l’esistenza, agli altri.
Invece, no.
Quel giorno, scoprii che il dolore è un linguaggio di comunicazione universale e inconfondibile.