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Vento di censura. Céline ancora fa paura

Creato il 01 febbraio 2011 da Stampalternativa

img_dg_newphp.jpeg È del gennaio di quest’anno la decisione del Ministro della Cultura francese Frédréric Mitterrand, sollecitato dal cacciatore di criminali nazisti Serge Klarsfeld e dal sindaco di Parigi Bertrand Delanoë, di mandare al macero un volume che, tra altre celebrate personalità nazionali, includeva anche Louis-Ferdinand Céline… “Céline ha alimentato l’odio antiebraico” accusa Klarsfeld; “La letteratura non si censura: questo caso è assurdo” ribatte Philippe Sollers.
Distinguendo la letteratura da ogni ideologia, si può comunque contestualizzare lo scrittore in frangenti storici caratterizzati da un diffuso antisemitismo che affonda le proprie radici nelle tesi della sinistra ottocentesca anticapitalistica sostenute soprattutto dai Fourier, Proudhon o dall’ebreo Marx.
Alfine non si tratta di valutare il profilo etico di Céline, ma d’inquadrarlo nella sua epoca (seppure non debba sfuggire come nessun autore primonovecentesco risulti più di lui attuale o ‘profetico’ rispetto a questo nostro tempo attraversato da conflitti e venti di guerra).
A cinquanta anni dalla morte, lo scrittore, ritenuto collaborazionista soprattutto a causa del suo libello Bagattelle per un massacro (specie di prosastico metapoema contro un presunto, planetario complotto semita-capitalistico), condannato a un anno di carcere e poi amnistiato, continua a rimanere ostaggio di schieramenti contrapposti, tra convinti ‘estimatori di destra’ e problematici ‘sdoganatori di sinistra’.
C’è intanto Henri Godard, tra i più assidui studiosi dell’opera céliniana, a sostenere che l’autore non ha mai nemmeno pensato di potersi mettere al servizio dei nazisti.
Né si dimentichi che le radici ideologiche di Céline, medico dei poveri e critico del colonialismo e di tutte le guerre, sono comuniste; e che è il viaggio nell’Unione Sovietica stalinista, ossia nel mondo del ‘comunismo reale’, che lo spinge a ricredersi scrivendo un libello, Mea culpa (1936), che appare anche un’occasione di autocritica.
Va peraltro chiarito che il “massacro” di cui tratta Bagattelle, scritto nel 1937, non allude all’inimmaginabile genocidio subito in date successive dagli ebrei; bensì al supposto massacro che, secondo l’autore, il cosiddetto complotto giudaico-massonico avrebbe potuto preparare contro gli “ariani”.
Sarà antiebraico e anticapitalista Céline, questo dichiarato spregiatore del ‘fascismo rosso’ di Stalin come del necroforico demonismo di Hitler? Sarà comunista o nazifascista, guerrafondaio o antimilitarista-pacifista, patriota o anarchico?… Non senza tenere conto che Céline si è variamente dichiarato comunista e anarchico, ma giammai fascista e nazista, nessuna definitiva risposta è possibile da parte di chi non voglia prescindere dal porsi con la debita onestà intellettuale di fronte a uno scrittore che, coi suoi orientamenti libertari purtroppo inficiati dall’antisemitismo reazionario, ha fatto della contraddizione la propria stessa poetica.
Ci sono scrittori la cui opera, non riducibile a nessuna ideologia né incasellabile dentro norme costituite, è spesso fraintesa quando non strumentalizzata. Esemplare, allora, resta il caso di Céline, adottato a vario titolo sia da oltranzisti laudatores come dai denigratori e, tuttavia, alla fine, ben poco considerato per il suo specifico impegno letterario: espressione d’un francese sperimentale, supremamente innovativo, che nelle prime opere dell’autore (soprattutto il Voyage e Morte a credito) interagisce con le ‘sonorità’ dell’argot e poi - per esempio nella ‘Trilogia del Nord’ (Da un castello all’altro; Nord; Rigodon) - si destruttura e stravolge fino a trasformare l’esatta lingua di Cartesio, troppo formale o razionalizzata, in un barocco tripudio dei sensi il cui antefatto può ravvisarsi nell’umorismo orgiastico d’un Rabelais coniugato con l’humour tragico di Dostoevskij.
Stefano Lanuzza


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