La luce che suona il suo ritornello fra le stecche delle tapparelle chiuse e rimanda al lenzuolo attorcigliato del tuo letto che non vorresti abbandonare se non fosse che ti chiama forte, proprio quella luce ti chiama e non resisti.
Le infradito che trovi a tentoni – abbandonate la sera prima, quando la notte era già avanzata e il sonno ti ha presa – , il profumo dei tigli dalle finestre spalancate.
Ventun giugno, domenica d’estate, caldo.
Il balcone con i fiori: li disseti sempre al mattino quando non devi andare via, ne togli le foglie secche li accarezzi, ti affacci alla ringhiera sul giardino più sotto e ti rinfreschi guardando l’erba verde del vicino.
Lalolle che entra in cucina ed apre il frigo è un accessorio passeggero, un breve sogno: è tutto negli occhi il giallo della mattinata estiva, il verde del prato, l’azzurro del cielo. Ti dimentichi, tutto dimentichi; sei colori, suoni, profumi, sei la calura di una notte senza respiro e senza sogni – perchè dei tuoi sogni non vuoi parlare non devi ricordarli – sei il sudore sotto la camicia leggera troppo corta.
Più tardi ci saranno le strade, le strade gialle sbiadite dal sole radente, i bar con i camerieri accaldati – in bilico i vassoi con le bibite fredde – le fontane con l’acqua che inganna perchè non rinfresca, Ice che cammina più svelta di te e si volta poi ad aspettarti, i negozi appena aperti e le commesse che spazzano davanti.
Più tardi: ora c’è l’odore di caffè che ti coglie impreparata mentre ancora guardi fuori del balcone la luce del giorno nuovo, di un nuovo giorno.
Domenica ventun giugno, estate, primo giorno.
Estate in città
Afa. Inerzia. Pènzolano roventi
le tende di tela grigia
dei caffè, dove le tazze
si colmano di bibite diacce
febbrili di spume,
e la bramosìa rossa delle facce
si curva rapida su quelle gocce d’inverno
sperdute
in mezzo all’arido furore dell’estate.E fuori, implacabile,
la brutalità bianchissima della luce
che strozza le pupille.E fuori, ad uscire dall’ombra,
tutta la piazza enorme come
schiaffo di luce.
L. Fiumi
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