Il mondo di Vera Lucia de Oliveira, poetessa bilingue, nota e apprezzata sia in Italia che in Brasile, suo paese di origine , ha la consapevolezza di un dolore dell’anima che è situato nel corpo e di un dolore del corpo che ferisce l’anima.
E’ una coscienza del dolore presente in ogni tempo e in ogni spazio , dalle creature che pur vivono in condizioni diverse.
E’ il dolore di una separazione, di un’assenza, di un vagabondare stanco e ferita , senza quiete, senza approdi. La vita ci lascia ai margini delle risposte, sia che si avanzi o si retroceda a un primordi amniotico , ci resta il corpo la materia, bagaglio che non ha consapevolezze e non ne cerca. La poetessa allora ordisce la materia, ne trae un composito arazzo, che si fissa non più come interrogativo senza risposta ma come essenza creaturale; un distillato della vita che è così , che , in quanto tale , ci deve bastare anche se il pungolo dell’irresoluto la scarnifica .
“Come uno schiaffo in faccia, come un dolore profondo nelle viscere, come un battito cardiaco più pressante e, a volte , come una carezza e una musica. Vi sono in questo universo di dolori, di incomprensioni, silenzi, crudeltà, momenti di dolcezza che si manifestano con naturalezza, non in funzione di placebo, ma come attestazione di verità: la vita è anche questo.” si è detto della sua poesia.
La vita dunque, incontro e scontro, evento inevitabile e evento imprescindibile, male assolutamente necessario che della sua necessità fa la sua ragion d’essere. Traspare allora una velatura spirituale, una richiamo, una richiesta sottotraccia anche in assenza di Dio, di fede, di speranza in un altrove che sia pacificato. La estenuante e incessante ricerca di senso sottrae questa poesia alla materia di cui è intrisa la transitorietà del suo essere per proiettarla verso un un’oltranza non percepita, ma cercata.
La carne quando è sola trascina verso il tempo delle origini per poi rimbalzare nel presente. È una poesia potente e forte che dà voce all’assenza e mescola la vita e la morte, il vuoto e il corpo, dove il dolore guarda il mondo con occhi pietosi e asciutti.
dalla finestra sentiva il rumore del vento
la vita nel ventre pulsava
i rami sul vetro come unghie
appuntite laceravano la luce
convocavano Dio, per vedere
la carne quando è sola
Le voci poetanti del libro sono molteplici: predomina un io maschile che poi cede a figure diverse, indefinite nel tempo e nel luogo, definite solo dalla condizione. A volte , invece, incontriamo nomi e cognomi :
il poeta Sandro Penna
girava per le strade alla ricerca di Dio
annusava ogni cosa guardava
era capace di vedere quello
che gli altri non vedevano
che colpa ha avuto alla fine
se Dio aveva deciso di nascondersi
nei corpi di quei poveretti infelici
quell’Ernesto ebreo mandato
a morire ad Auschwitz?
Il discorso intorno alla religione che non riesce ad appagare la fame di vera pace e a sedare il dolore è presente in numerose poesie, amare e precise:
da vent’anni si preparava
per la partenza le cose a posto
voleva lasciare giacchè tornare
non era ammesso e poi sapeva
solo uno di loro che era ritornato
per cosa? Cristo a Lazzaro non
aveva regalato la vita eterna
aveva solo posticipato il dolore
di dovere rifare le valigie.
Vorrei aggiungere questi altri versi a testimoniare di un pessimismo leopardianamente cosmico, come afferma nella prefazione di Alessio Brandolini.
Non ce l’ho con chi mi ha convocato alla vita
ma ogni cosa mi doleva ogni cosa mi feriva
non avrei mai voluto vedere l’alba
sapendo di doverla pagare
così cara.
credo che già in queste poesie si senta la presenza di una coralità di voci che condividono un medesimo destino: la vita. Ma se vita non fosse, allora che succederebbe?.. Non ha risposte la poetessa e ciascuno comunque trova o non trova le sue.
Eppure il verso della De Oliveira mai s’ingroppa, mai s’alza a recriminare o a lamentare: si stende sul foglio con una sua lieve armonia, libero da vincoli metrici , di punteggiatura , libero da ogni formalità retorica, quindi pacato, disteso a terra, offerto come si offre la disposizione di un parquet.
Eppure questa poesia penetra, s’incunea nella coscienza del lettore, percuote le sue fragilità e le sue certezze, senza far male però. E’ la magia della parola che sa dire senza ferire e ferire dicendo, che sa denudare la vita e poi rivestirla di luci e di ombre.
Credo che si debba informare che l’opera è vincitrice del Premio Internazionale di poesia “Pietro Alinari” 2009
Narda Fattori
Piccola antologia
sai dire se anche di là c’è vita?
se anche di là bisogna nascere e morire
lottare per il pane faticare per l’amore
logorarsi per non perdersi? io qui
mi sono stancato se parto qualcuno
mi deve garantire che non
dovrò ricominciare daccapo.
alla mamma non posso dire che la luce mi urta
da lei ho preso gli occhi da lei ho preso il modo
di aprire gli occhi da lei ho preso perfino il modo
di non stare in silenzio nel muto
camminare nel buio
incespicando a fatica
non si raggiunge l’uscita<
non si fa che giurare in cerchio
barcollare sui lembi
della stessa ferita
i giovani non hanno il senso del dolore
si figurano i vecchi come vogliono
un po’ teneri pietosi in attesa
delle ore migliori in cui l’accumulo
dell’oro lascia un grande tesoro
ma lei era vecchia non ci vedeva nulla
oltre quel sordo morire sempre più velocemente
come avrebbe potuto dire a loro che dentro
sentiva il lacerare della carne che non voleva
più collaborare con le ossa per sostenere la vita
passava ore a guardare
il filo delle formiche il gran
daffare delle minuscole
vite sono come noi non
vedi l’affanno di tirarsi
dietro il carico non sanno
neanche perché debbono
trasportarlo solo che bisogna farlo