Bambino, sost. m.
Questa è una parola che vorrei definire “naturale”, perché deriva direttamente dai versi con cui comunicavano i nostri antichissimi progenitori, appena scesi dagli alberi.
Lo spiega meglio, con la consueta precisione, il Pianigiani:
Le lettere b-p-m, che per essere labiali sono fra le prime che articolano i fanciullini neonati, servono in molte lingue a formare i nomi di parentela con la ripetizione della stessa sillaba; in tal modo dev’essersi formato bimbo, con suo diminutivo bambino.
E infatti in moltissime lingue del mondo si usano suoni molto simili – e quindi parole simili – per indicare il cucciolo di uomo.
In questi giorni abbiamo parlato molto di bambini, forse troppo e quasi certamente male. Ci sono stati gli ottanta bambini morti sull’aereo della Malaysia Airlines che è stato abbattuto – forse per errore – in un’operazione di guerra sui cieli dell’Ucraina. Ci sono i bambini di Gaza – il loro numero è destinato a salire, perché mentre io scrivo e quando voi leggerete continueranno a morire sotto il fuoco dell’esercito israeliano. C’è stato il bambino morto – l’ennesimo bambino morto e quindi non ha fatto particolare scalpore – nel Canale di Sicilia, mentre la sua famiglia tentava il viaggio tra le coste dell’Africa e quelle dell’Europa.
Nessuna di queste morti a noi è sembrata naturale, anzi ci siamo infuriati a vedere quelle immagini – in alcuni casi ci sono state fatte vedere proprio perché ci infuriassimo – ci siamo rattristati, abbiamo pianto; chi ha un figlio piccolo immagino avrà provato un peso ancora maggiore di quanto sia successo a noi che non ne abbiamo. Eppure anche in quelle morti, che adesso viviamo come uno scandalo, c’è qualcosa di naturale, di animale. Forse dovremmo ricordarci più spesso che noi quello siamo, per quanto l’evoluzione abbia agito su di noi in maniera piuttosto inspiegabile.
E’ un istinto naturale fuggire di fronte al pericolo ed è altrettanto naturale cercare di portarsi dietro la propria famiglia, per quanto quel viaggio possa essere pericoloso e pieno di insidie. Conosciamo tutti la storia di quell’artigiano della Galilea che affrontò un viaggio verso l’Egitto con la giovane sposa che aveva appena partorito, perché sapeva che il re voleva uccidere tutti i neonati. Fu un viaggio pericolo, mise a repentaglio la sua vita e quelle della moglie e del figliio, eppure era convinto di fare la cosa giusta, anzi l’unica cosa possibile. Ogni giorno migliaia di padri e migliaia di madri prendono la stessa decisione e sono convinti di far bene, di fare il meglio per i loro bambini, che magari moriranno annegati al largo delle coste siciliane o disidratati sotto il sole del Sahara.
Anche la guerra è qualcosa di naturale, per quanto ciascuno di noi voglia credere il contrario, preferisca credere il contrario.
Nella Guerra del Peloponesso Tucidide racconta una piccola vicenda che non ha un particolare interesse bellico, ma serve a far capire le dinamiche e i motivi di quel conflitto. Melo era una piccola isola che, nonostante fosse molto vicina ad Atene, non era mai entrata nella sfera di influenza della città, allora egemone sull’Egeo. Nonostante i molti sforzi diplomatici degli Ateniesi, i Meli preferirono mantenere la propria neutralità. Fino a quando, nel 416 a.C., un anno di pace nella guerra con Sparta, gli Ateniesi decisero di risolvere quella storia una volta per tutte, inviando la loro enorme flotta contro la piccola isola. Dopo un assedio, durato molto più a lungo di quanto la stessa Atene si aspettasse, l’isola fu costretta alla resa, e Atene applicò una punizione spietata ed esemplare: tutti i maschi adulti furono uccisi, mentre le donne e i bambini furono ridotti in schiavitù.
Tucidide racconta l’ultima ambasceria degli Ateniesi, ormai decisi a distruggere l’isola “ribelle”, in un celeberrimo dialogo, che è una delle più belle pagine dello storico greco.
Quandi i Meli chiedono agli Ateniesi:
E non potreste accettare che noi, restando in pace, fossimo amici invece che nemici, ma alleati di nessuna delle due parti?
Questi rispondono:
No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra amicizia, manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza mentre l’odio lo è della nostra potenza.
Temo che ormai gran parte degli israeliani ragioni come gli Ateniesi e quindi ritenga necessario distruggere i palestinesi, perché solo l’odio potrà essere il segno della loro potenza, contro nemici ben più forti dei cittadini di Gaza.
Immagino che i bambini di Melo, almeno i più piccoli, non riuscirono a rendersi conto di cosa stava accadendo, perché da un giorno all’altro si trovassero a bordo di una nave e poi a servizio di qualche ricca famiglia ateniese o magari ad imparare un mestiere in una bottega del Pireo; forse qualcuno di loro visse ignaro della sorte della propria famiglia e della propria città. Forse neppure i bambini di Gaza, almeno i più piccoli, si stanno rendendo conto di cosa sta loro succedendo.
Noi però non siamo più bambini. Dobbiamo rendercene conto e dobbiamo chiederne conto a chi è responsabile della loro morte: Hamas e i terroristi palestinesi da un lato e il governo israeliano dall’altro.
Al governo di Israele lo chiederemo con più forza, perché pensiamo abbia una qualche responsabilità in più, non solo per la differenza delle forze in campo, per la sproporzione – simile a quella tra gli Ateniesi e i Meli – tra le loro capacità di offesa e di difesa, ma anche in ragione della storia di quel popolo, che ha sofferto più degli altri popoli. Ma la sofferenza che loro hanno subito, che hanno subito i bambini deportati a Terezin e in tutti gli altri campi di sterminio, non concede loro speciali diritti, anzi impone loro speciali doveri.
Per un bambino - e anche per una bambina – è naturale giocare. Lasciamoglielo fare.