Lavoro, sost. m.
Questa è la parola del Primo maggio, come libertà lo è del 25 aprile, due bellissime feste che, insieme al 2 giugno, rappresentano l’anima della nostra Repubblica. Credo dovremmo valorizzare di più queste feste e non considerarle soltanto l’occasione di qualche ponte primaverile.
Lavoro deriva dal sostantivo latino labor, che significa fatica; quindi il Pianigiani spiega che laborare vuol dire prima di tutto
operar faticando
Il grande studioso di etimologia spiega che in questa parola troviamo la radice labh, che ha come primo significato quello di afferrare e poi quello figurato di agognare. In questa parola c’è quindi uno sforzo e un desiderio, che rende bene, a mio avviso, il valore che il lavoro ha per ciascuno di noi. O che dovrebbe avere.
Per capire cosa significhi davvero questa parola, credo sia utile andare a rileggere le pagine dei verbali delle sedute dell’Assemblea costituente in cui è stato deciso che il lavoro dovesse essere l’elemento fondante della nostra Costituzione, da collocare nel primo comma del primo articolo della legge più importante della Repubblica.
Dai lavori della Commissione dei settantacinque il testo dell’articolo 1 era uscito con questa formulazione:
L’Italia è una Repubblica democratica. La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi.
Bello certamente, ricco di significati, ma non proprio facile da ricordare. Quel richiamo al lavoro e soprattutto ai lavoratori fu fortemente voluto dai comunisti e dai socialisti. Fu però il democristiano Amintore Fanfani a proporre nella seduta plenaria dell’Assemblea del 22 marzo 1947 il dettato dell’articolo come poi fu approvato e come tutti lo conosciamo. Credo meriti rileggere queste sue parole.
Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui e si afferma invece che essa si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale. Quindi, niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere d’ogni uomo di essere quello che ciascuno può, in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune.
E’ ingiusto – e anche anacronistico – fare paragoni tra chi allora scrisse la Costituzione e chi oggi la vorrebbe riformare; troppo diverse sono le condizioni storiche, politiche, culturali e sociali tra l’Italia di allora e quella di oggi. E non possiamo solo dire che la classe politica è peggiorata, dobbiamo dire che anche la società è peggiore, noi tutti non riconosciamo e non seguiamo i valori che c’erano allora. E parimenti è sbagliato mettere su un piedistallo quella classe politica, senza riconoscerne i limiti, gli errori, in alcuni casi le nefandezze. Nonostante tutto questo però, quando si leggono parole come queste, scopri davvero un abisso e ti prende un senso di nostalgia e di sconforto, pensando a cosa saremmo potuti diventare e a cosa siamo diventati.
Al di là di questo inciso, ci sono due aspetti che credo sia giusto sottolineare nella parole di Fanfani, che penso possano essere utili anche per la riflessione dei nostri giorni su un tema così importante per la vita di tutti noi.
Il nostro lavoro, il lavoro di tutti, deve essere uno sforzo libero. Pare scontato, ma non lo è: lo sforzo di uno schiavo, di un uomo o di una donna costretti a cedere il proprio tempo e le proprie energie, non può essere considerato lavoro. Ci sono schiavi che nell’antichità hanno costruito capolavori architettonici e ci sono oggi schiavi che producono le magliette che indossiamo o i telefonini con cui ci teniamo continuamente in contatto, ma questo non è lavoro. E non serve andare in Asia o in Africa, basta fermarsi a Prato o nelle campagne dove si raccolgono le arance e i pomodori, solo per fare qualche esempio. Lo dobbiamo ricordare quando valutiamo la crescita di un paese: la schiavitù conviene dal punto di vista puramente economico, dal momento che garantisce bassi costi di produzione e crescita della ricchezza complessiva. Però quello non è lavoro e non realizza la prosperità comune.
Il secondo aspetto è che il lavoro di ciascuno di noi realizza a un tempo noi stessi e la società. E’ abbastanza semplice capire che il lavoro libero di ciascuno di noi contribuisce al bene della comunità, è qualcosa di cui abbiamo immediata evidenza. Forse non abbiamo ancora capito quanto il lavoro sia importante per ciascuno di noi. A me è successo, intorno ai quarant’anni, di non avere un lavoro e vi assicuro che si è trattato davvero di un momento buio della mia vita, che ricordo con dolore e ansia e che faccio di tutto per non ricordare. Chi non lavora non esprime la sua capacità di essere, in qualche modo non è.
Per questo mi arrabbio tantissimo quando mi capita di vedere qualche collega che non si rende conto della fortuna che ha e che lavora male. Lavorare male è sbagliato non solo perché danneggi quello che fai e chi quel lavoro te l’ha dato – e questo discorso vale tanto di più per noi “pubblici”, i cui datori di lavoro sono i cittadini – ma perché mina la tua dignità. Dobbiamo ricordare sempre che il lavoro è un diritto, ma anche un dovere, e che quindi richiede tutta la nostra responsabilità e tutto il nostro impegno.
Allo stesso modo chi ha responsabilità di governo dovrebbe ogni giorno rileggere queste parole di Fanfani per capire che l’articolo 1 della nostra Costituzione non è una formula, un espediente retorico – per quanto ben riuscito – ma un impegno cogente, per tutti.