Treno, sost. m.
Nella lingua italiana questa parola ha due significati molto diversi: quasi si può parlare di due parole differenti dal momento che hanno un’etimologia e una storia completamente diverse.
Treno, come calco del greco antico threnos, significa canto funebre. Celebri sono i treni di Simonide – suo quello per i caduti alle Termopili – e quelli di Pindaro. Per estensione sono dette treni anche le Lamentazioni dell’omonimo libro della Bibbia, attribuito al profeta Geremia.
Nel suo secondo – e più consueto – significato questa parola deriva dal francese train, ossia traino, un derivato del verbo traîner che, per etimologia e valore semantico, corrisponde all’italiano trascinare. Il significato di “convoglio ferroviario” si è formato dapprima nella lingua inglese – peraltro il treno lo hanno inventato loro – dove, come in italiano, train è un prestito dal francese.
In queste settimane ci è capitato spesso di parlare di treni, nella seconda accezione del termine, dal momento che l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato ha minacciato addirittura di andare in volontario esilio all’annuncio che il governo avrebbe di poco ridotto il suo faraoico stipendio. Si è trattato della solita tempesta in un bicchier d’acqua, dal momento che il ventilato taglio non c’è stato, lasciando quindi Mauro Moretti nel posto che occupa immeritatamente da cinque governi fa.
E’ notizia degli ultimi giorni che da quest’anno Moretti, invece di tagliare il proprio stipendio, ha deciso di eliminare gli intercity, così che le Ferrovie dello Stato gestiscano di fatto soltanto l’alta velocità, avendo ormai da tempo abbandonato a se stesso il trasporto locale e gli sventurati pendolari costretti ad utilizzarlo. Anzi in questo caso è possibile vedere una singolare sintesi tra i due significati della parola treno, viste le continue lamentazioni, veri e propri canti funebri, che è possibile ascoltare in qualunque stazione italiana, alla partenza e all’arrivo – quando partono e quando arrivano, cosa non sempre scontata – dei sempre più malmessi convogli del trasporto passeggeri di fascia bassa.
Ho deciso di affrontare questa definizione non per parlar male di Moretti, ma perché tra pochi giorni festeggeremo gli ottant’anni della Direttissima Bologna-Firenze: infatti il 22 aprile 1934 fu finalmente inaugurata questa fondamentale linea ferroviaria, i cui lavori – peraltro difficili a causa delle condizioni di lavoro e del terreno – erano iniziati nel 1913 e furono resi molto più complicati dalla Grande Guerra. Quella linea nasceva subito “moderna”, a doppio binario con trazione elettrica, curve ampie e ben raccordate. Rispetto alla Porrettana il percorso si era accorciato da 131 a 97 chilometri; il tempo di percorrenza tra Bologna e Firenze, che dalle cinque ore del 1864 si era ridotto a tre ore nel primo dopoguerra e nel 1927 con l’elettrificazione della Porrettana a due ore e mezza, con la nuova Direttissima si dimezzava di colpo a un’ora e un quarto. Furono almeno un centinaio i caduti della Direttissima, gli operai morti durante la realizzazione dell’opera, in particolare della grande galleria dell’Appennino - 18,507 chilometri, allora la seconda più lunga del mondo, dopo quella del Sempione – senza contare quelli che si ammalarono di silicosi.
Immagino sia stata anche l’influenza dei film western, del mito americano della frontiera, ma per noi emiliani sono stati i più domestici racconti sulla Direttissima a farci considerare da sempre l’espandersi delle ferrovie come un elemento di progresso, come un evento positivo della storia degli uomini.
Non sono uno storico dell’argomento, ma immagino che allora non sia mai sorto qualcosa di lontanamente paragonabile a un movimento no-Direttissima. Magari ci fu qualcuno che avrebbe preferito un diverso tracciato o l’utilizzo di altre soluzioni tecniche, penso che qualche notabile di Porretta si sia arrabbiato per quella scelta, ma nessuno pensava che quella ferrovia non dovesse essere realizzata. Anzi quella ferrovia ha rappresentato un elemento di orgoglio nazionale, e in questo modo fu utilizzata dal regime fascista; non per altro il Duce si vantava di far arrivare i treni sempre in orario. La costruzione di quella linea – che adesso chiameremmo una “grande opera” – ha rappresentato una grande occasione di sviluppo per quel territorio e un’opportunità di lavoro, in Italia, per tantissime persone. La Direttissima in sostanza ha unito l’Italia non solo in senso geografico, avvicinando la pianura padana al resto della penisola, ma ha rappresentato davvero un elemento unificante del paese, come è avvenuto nel secondo dopoguerra con l’Autostrada del sole. In qualche modo eravamo ancora nel tempo delle “magnifiche sorti e progressive“, nonostante solo cinque anni dopo l’Europa sarebbe stata sprofondata nell’incubo della seconda guerra mondiale. La scienza e la tecnica erano però un elemento di progresso, nonostante tutto.
In fondo ottant’anni non sono molti, eppure il nostro modo di affrontare questi temi è completamente cambiato. Prendiamo la vicenda dell’alta velocità tra Torino e Lione.
In merito alla linea Tav, da cittadino, sarei disposto a subire dei sacrifici – e un così pesante intervento sul territorio adesso lo consideriamo un sacrificio, a differenza di quello che avremmo pensato ottant’anni fa – se ciò significasse un vantaggio per la collettività. Il problema è che in questa vicenda sono ben chiari i sacrifici, ma sono molto più aleatori e vaghi i vantaggi.
Ritengo che, in queste condizioni, la Tav sia un errore e provo a spiegare perché.
Mi pare che in questa vicenda siano state finora prevalenti due opposte visioni ideologiche, quelli che considerano la Tav come un indispensabile elemento di progresso, una necessità strategica per l’Italia e per l’Europa e quelli che la considerano un danno, a prescindere. Fino a quando la discussione rimarrà su questo piano è evidente che nessuno riuscirà a convincere nessuno. La Tav forse non si realizzerà, o forse, più probabilmente, si realizzerà male, all’italiana – un po’ di Tav, per non scontentare nessuno e quindi scontentando tutti – perché gli appetiti sono tanti, più o meno leciti, ma certamente non si riuscirà nemmeno a ragionare sul futuro dei trasporti e della logistica in questo Paese – e questo è un grave problema per tutti, indipendentemente dalla Tav.
In Italia viaggiare e far viaggiare le merci è un’impresa forse paragonabile a quella dei pioneri del selvaggio West: si sa quando si parte, ma non quando si arriverà. In Italia viaggiare è quasi sempre sinonimo di utilizzare l’automobile, far viaggiare le merci significa quasi sempre caricarle su camion. La rete del trasporto ferroviario, al netto della linea ad alta velocità tra Roma e Milano, è nettamente al di sotto degli standard degli altri paesi europei.
La linea Torino-Lione riuscirà a diminuire in maniera sensibile il traffico di automobili su quella tratta? Probabilmente no, anche perché non è particolarmente significativo dal punto di vista numerico, come ad esempio quello dell’asse nord-sud. L’alta velocità sposterà considerevolmente il traffico merci dalla gomma al ferro? No. Per raggiungere questo scopo non serve l’alta velocità, facendo guadagnare un’ora o due di tempo, basterebbe penalizzare la circolazione dei tir sulla strada e rendere più conveniente e soprattutto certa in termini di orari quella su ferro, mentre in Italia avviene esattamente il contrario. Il problema è che Svizzera e Austria sono impegnate a potenziare la propria rete di trasporto su ferro, mentre in Italia preferiamo “impiccarci” a un progetto che interessa un angolo del paese dove viaggia solo una piccola parte delle merci.
Inoltre preoccupa il fatto che su quanto costerà effettivamente la Torino-Lione ci siano forti divergenze. I comitati della Val di Susa stimano che quest’opera costerà almeno 23 miliardi di euro, a cui si devono aggiungere altre spese difficili da prevedere, ad esempio per la gestione della sicurezza presso i cantieri (per Chiomonte si è arrivati a spendere 90mila euro al giorno). Gli stessi comitati denunciano anche una sproporzione nell’accordo con la Francia per la ripartizione dei costi: l’opera sarà per un terzo sul suolo italiano, ma il nostro paese sosterrà il 57,9% delle spese. Infine ci sono dei dubbi sull’effettiva misura del contributo europeo. Chi sostiene la necessità di realizzare la Tav, dice invece che costerà 2,8 miliardi di euro, e che questa spesa, dilazionata in dieci anni, è sostenibile; dicono inoltre che il contributo europeo è certo e che potranno esserci anche investimenti privati, sul modello di esperienze simili fatte in Europa. La differenza tra i due dati è troppo grande, anche perché, in buona sostanza, il tracciato non è ancora stato stabilito definitivamente e di conseguenza è difficile credere che i costi possano essere individuati in maniera univoca.
Chi sostiene che la Tav, a questo punto, debba essere completata gioca con le parole; i lavori non sono mai cominciati veramente né sul versante italiano né su quello francese. E’ stato impiantato un cantiere dove saranno raccolti i detriti dei primi scavi conoscitivi che serviranno a ottenere informazioni sul tipo di rocce, in modo da stabilire il tracciato definitivo della linea. Forse siamo ancora in tempo a fermarci, magari decidendo di spendere quei soldi in maniera diversa.
E allora?
E allora / io quasi quasi prendo il treno / e vengo, vengo da te, / ma il treno dei desideri / nei miei pensieri all’incontrario va.