Ci sono questioni che vanno al di là della simpatia o meno per il soggetto in questione, oltre la condivisione o meno delle sue idee e del suo modo di interpretare il suo lavoro. Sono questioni di principio, da non prendere alla leggera perché riguardano potenzialmente tutti.
Alessandro Sallusti rischia un anno e due mesi di carcere per colpa di un articolo che non è neppure suo. Questo per colpa di una legge di eredità fascista che rende i reati d’opinione perseguibili penalmente, e non solamente in sede civile, un unicum nel mondo occidentale, democratico e liberale.
Nel 2007 Sallusti era direttore responsabile di Libero, con Vittorio Feltri direttore editoriale. Nelle pagine del quotidiano viene pubblicato un commento su una vicenda giudiziaria firmato dall’autore, che non era Sallusti, con uno pseudonimo. Il giudice tutelare Giuseppe Cocilovo si sente diffamato dal pezzo e, com’è prassi, sporge querela.
Il direttore è responsabile di tutto ciò che viene pubblicato e pertanto la colpa ricade su di lui. Ma anche la strategia di difesa ha del surreale, semplicemente perché non c’è: l’avvocato dell’azienda editoriale si distrae e non tutela l’imputato. In primo grado arriva la multa di 5 mila euro.
La parte lesa non ritiene la pena congrua e allora fa ricorso. L’avvocato di Sallusti è ancora assente e irrintracciabile, subentra uno d’ufficio che non tiene particolarmente al caso e perde clamorosamente: i 5 mila euro si trasformano in un anno e due mesi di prigione.
14 mesi che Sallusti dovrà effettivamente scontare dietro le sbarre perché non scatta la condizionale che gli permetterebbe i domiciliari: praticamente tutti i giornalisti di lungo corso hanno incamerato nella loro carriera molte cause e qualcuna l’hanno persa. Sallusti non fa eccezione.
Mercoledì la Cassazione esaminerà il caso ma, come al solito, non entrerà nel merito, limitandosi a verificare la correttezza procedurale. Se non troverà papocchi, Sallusti sarà arrestato.
La questione non è tanto da imputare a giudici severi perché hanno semplicemente applicato la legge, gli strumenti che hanno in mano per punire chi commette errori sulla carta stampata. Non è l’impunità che si domanda, ma l’equità. Il carcere per un articolo non è equo, qualunque sia il suo contenuto. Le multe, anche salate, sono un deterrente già efficace. Il problema è alla radice, è politico.
Una vicenda grottesca che ben mostra perché l’Italia sia così indietro nella più volte citata classifica per la libertà di informazione. Molti governi, succedendosi negli anni, hanno provato, con scarso successo e poco impegno, a riformare i reati d’opinione, sempre stoppati dalla lobby degli avvocati per cui sono fonte di guadagno. È tempo di riformare e di farlo in fretta e smettere di essere una dittatura.
Fonte: Libero e Il Fatto Quotidiano