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Vergogna. L’ultimo a pronunciare questa parola pubblicamente è stato Papa Francesco, a proposito della evitabile “strage di Lampedusa” dello scorso 2 ottobre (alla quale, purtroppo, ne è seguita un’altra di minori dimensioni).
“Mi viene la parola vergogna: è una vergogna”.
Difficile essere in disaccordo con il Pontefice.
“Fatto o situazione che costituisce o che reca disonore e discredito” l’unico termine appropriato atto a definire quanto accaduto nelle acque della splendida isola siciliana.
Un vocabolo inflazionato, spesso utilizzato a sproposito e spogliato della sua importanza e del suo significato più profondo, il quale è intrinsecamente legato all’identità e all’immagine.
La parola vergogna deriva dal latino “vereor”, che significa “avere timore rispettoso, riverenza”. Con essa si fa riferimento sia al turbamento e all’angoscia derivanti dall’aver compiuto un’azione lesiva dell’onore e della rispettabilità che dall’essersi messi in una situazione passabile di riprovazione morale, sia il ritegno suggerito dalla timidezza o dalla discrezione.
La vergogna si manifesta, tendenzialmente, nelle relazioni asimmetriche, nelle quali uno dei soggetti coinvolti si avverte svilito, insignificante, oggetto di uno sguardo impietoso da parte dell’altro e, per reazione, si chiude in se stesso , sviluppando sentimenti negativi come la rabbia e l’invidia.
Un’emozione complessa, dunque, poiché ha a che fare non soltanto con l’identità, ma anche con le regole sociali con cui questa entra in relazione. Ma al tempo stesso episodica, in quanto si presenta sporadicamente e ha una durata limitata nel tempo.
Artefice di una delle più interessanti riflessioni sul tema è il filosofo francese Sartre, il quale identifica la vergogna con il “riconoscimento di sè” che ciascun individuo opera attraverso l’immagine di se stesso che gli arriva dagli altri: in altre parole, per Sartre la vergogna si manifesta unicamente di fronte agli altri in quanto solo attraverso l’esposizione allo sguardo dei nostri simili e, dunque, al nostro renderci oggetto di un’osservazione da parte di un soggetto altro da noi, proviamo vergogna per noi stessi.
Non ci si vergogna, tuttavia, soltanto di se stessi ma anche degli altri, quando questi pongono in essere azioni moralmente riprovevoli, sopratutto nei casi in cui le medesime risultano lesive dell’immagine della società di appartenenza.
Purtroppo, negli ultimi tempi ci si vergogna sempre più raramente e sempre meno intensamente. Tutti, volenti o nolenti, siamo vittime dell’inarrestabile declino della moralità e dell’imbarbarimento della società.
La vergogna, dice il filosofo italiano Umberto Galimberti, è un “sentimento fondamentale”. “Oggi però” fa notare il filosofo italiano “l’esposizione non la si teme più”.
In questa epoca piena di paradossi, esporsi il più possibile, trasgredire a qualsiasi costo, agire senza pensare alle conseguenze come se non si fosse capaci di distinguere tra bene e male, non vergognarsi mai di nulla è percepito come assolutamente normale e giusto. Peccato però che non sia così.
Questo modus vivendi, sostiene Galimberti, non può che generare il “collasso della morale collettiva, individuale, interna e psichica”, addirittura “la fine dei tempi”: un epilogo inevitabile se continueremo a percorrere questa strada e a non sentire in cuor nostro, di fronte a una condotta amorale, il bisogno di provare vergogna.