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La vita di uno studente fuori sede è fatta di tante cose, ad esempio la convivenza con tre donne ti porta a conoscere miscugli dagli effetti rilassanti che nemmeno conoscevi, creme depilatorie che ammezzerebbero un cavallo e ore interminabili di trucco e parrucco. Allo scoccare delle sei di pomeriggio usciamo dalle nostre caverne umide, chi con un i cetrioli sugli occhi, chi con lo smalto appena disteso o chi come me con delle pantofole Ikea pronte a prendere a pugni qualcuno.
L’appuntamento del tè è diventato un rito irrinunciabile da quando è arrivato l’inverno, abbiamo anche scovato un servizio di teiere e tazzine che la nostra padrona di casa avrà sicuramente preso con i punti del Billa. Due tazze e un chilo di Gocciole perché erano in offerta questa settimana, il colesterolo te lo regalano e le cure per il diabete si possono scaricare se hai la tessera Spesamica.
La vicina non si perde una puntata di qualunque talk show e mentre studio desidero inghiottire vagonate di Pop-corn commentando la stopposità (non fateci caso ormai ho cominciato ad inventarmi le parole) dei capelli di Tina oppure la sudorazione accelerata di Maria De Filippi. Il momento più deprimente per uno studente che non può aspettare che il piatto gli venga servito è l’ora della cena. Una tragedia immane, una drammaticità peggio della perdita del Cuore dell’Oceano in Titanic, la ghigliottina di Marie Antoinette in confronto è acqua fresca. Cucinare per me è un’incombenza deleteria, mi capita spesso che il mio corpo si auto-convinca di non aver bisogno di mangiare.
E cosa c’è di meglio che scoprire che nella tua ridente cittadina inaugurano un negozio di design? E se inaugurano non offrono un piccolo rinfresco? E se c’è un rinfresco non ci vai a fare un salto anche se fuori la nebbia non ti permette di vedere nemmeno se ti sei allacciato bene le scarpe?
“Prendi il tuo noleggio che usciamo” direbbe Carrie Bradshaw, io non ho potuto usare questo termine perché qui di noleggio non c’è nemmeno un film in dvd. Per l’occasione ho deciso di sfoggiare un Borsalino perché mi sono detto “Lollo” [Io e la mia mente distorta abbiamo sempre delle strane conversazioni] “sono giorni che non ti si vede e che stai in pigiama, sei in centro, ci sarà tutta la crème della crème del Design Lombardo-Emiliano, vestiti decentemente e non come un beccamorto in pensione”. Ho seguito il consiglio della mia mente, ci siamo agghindati per come fosse possibile e siamo usciti.
Fuori la Russia, 1812, un freddo transiberiano, ti si ghiacciavano anche i peli meno superflui, una coltre di ghiaccio ci aveva sbarrato completamente la visuale della strada, sembrava uno di quegli inseguimenti americani, solo che noi eravamo da soli, senza riscaldamento che sbandavamo con una Uno verde-abete-pino-silvestre. Parcheggiamo comodamente a otto chilometri dalla via del negozio, avevamo già gli occhi a forma di arrosto e tramezzini, una fame di quelle mitologiche per cui potresti mangiare un Kebab e anche il ragazzo egiziano che te lo cucina. Inquadro subito il negozio, di quelli un po’ spocchiosi, sciatti ma finto minimal-chic.
Tutta la mondanità parmigiana era presente, tutte impellicciate intrise di Chanel numero 5 a coprire la polvere e la naftalina sopra ai loro tailleur comprati in occasione di uno sventurato matrimonio finito in divorzio qualche mese dopo perché lui si è scoperto gay e ha tradito la moglie con il suo istruttore di yoga. Prima di richiedere un calice di vino bianco ho suggerito di fare un giro di perlustrazione del negozio, due secondi dopo ho braccato il cameriere avvistato con il mio occhio di lince e ci siamo messi in una posizione strategica, vicino alla porta da cui uscivano le “portate”. In realtà chi era riuscita a conquistare l’egemonia napoleonica sui vassoi era un’innocua platinata, troppo presto per definirla innocua.
Nessun cameriere faceva in tempo a varcare la soglia che lei si era divorata qualsiasi cosa. Un primo bicchiere giusto per fare gli intenditori, infatti ho seguito alla lettera le tre regole per un’ottima partecipazione ad un vernissage.
1) sorridere e far finta che tutto quello che viene inaugurato sia il sogno della tua vita, 2) non far vedere che ti stai mangiando anche il flute di champagne, 3) se dovessero scattare delle foto non sorridere come un ebete e niente pose da Victoria Beckham. Il negozio offriva pezzi di arredamento finti-minimal-chic, tutto un nero e bianco geometrico, freddo e impersonale che starebbe bene in casa di qualche single arricchito con un Porsche Cayenne parcheggiato sotto casa.
Tavolini bassi che ti fanno venire la sciatica solo al pensiero di mangiarci sopra, bicchieri che al primo lavaggio con il detersivo della Lidl si frantumano. Insomma, oggetti per una casa che non è la tua e in cui devi solo stare in piedi senza appoggiarti, nemmeno respirare. La padrona di casa, vero fulcro della serata, riceveva i suoi brillanti ospiti tutti eleganti e ben vestiti. Tutti tranne lei. Mi sembra giusto, inauguri il tuo negozio e ti vesti come una spogliarellista bielorussa, una mossa da campionessa dello stile.
Torniamo al cibo, emblema del nostro arrivo in questa dimensione Bauhaus, si avvicina il cameriere che mi porge un piccolo bicchiere con qualcosa di indefinibilmente giallo al suo interno. Annuso, non capisco, qualche ciuffo rosso sopra, riguardo, doppio boh. Chiedo “Ma che è?” “Purè di patate caldo con fili di peperoncino”. Mollo sul tavolo di resina nero quel bicchierino, convincendomi che si sarebbe mangiato qualcosa di veramente interessante per secondo, nel frattempo la signora platinata avvolta nei suo cadaveri di volpe si era fatta fuori un’intera piantagione di patate e beveva ettolitri di vini a causa del peperoncino.
Il secondo, un “piatto unico” consisteva in un cappelletto in brodo, dove il numero uno che vi ho indicato non è casuale ma quantitativo. Un cappelletto, uno. Uno di numero. La forma e la location saranno state anche all’ultima moda ma del catering se ne occupava meglio “La trattoria di Zio Gigino”, lui ci avrebbe messo anche qualche bel pezzo di salame e la mortadella, altro che filini di peperoncino. Ho preso il Borsalino e me ne sono andato, l’effetto del vino si faceva sentire, lo stomaco brontolava. “Ragazze andiamo, vi porto in un bar in cui fanno un ottimo aperitivo, c’è tanta gente quindi non si accorgono se mangiamo ma non consumiamo”.
Pezzente sì, scemo no.
Lo so che cominciate ad odiarmi. E non posso darvi torto ma io amo scrivere come pochi al mondo e se nella gerarchia dei blogger voi siete i lettori, si salvi chi può.