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“Vero e falso belcanto” di Antonio Juvarra

Creato il 01 settembre 2015 da Gianguido Mussomeli @mozart200657

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I contributi teorico-didattici di Antonio Juvarra sulla tecnica vocale hanno ormai assunto il carattere di una vera e propria rubrica fissa, che io mi onoro di ospitare su questo sito. Ecco l’ ultimo scritto inviatomi da Antonio, che vi propongo augurando come sempre una buona lettura.

VERO E FALSO BELCANTO

Da più di un secolo nella didattica vocale si è insinuato uno di quei pervicaci luoghi comuni che, una volta attecchiti, non vengono più messi in discussione perché scambiati per un dato di fatto obiettivo e quasi scontato: l’ arrotondamento delle vocali. Esso viene solitamente espresso e ‘spiegato’ nel seguente modo: le vocali della voce parlata sono prodotte da una cavità di risonanza limitata se non chiusa, la quale, se mantenuta nel canto, darà luogo a un suono schiacciato, sbiancato e tendenzialmente gridato. Per questo motivo quando si canta è necessario arrotondare le vocali, il che significa modificarle rispetto a come sono quando si parla. L’ arrotondamento delle vocali si attua scurendo leggermente la voce oppure verticalizzando la forma dello spazio di risonanza oppure facendo in modo che le vocali più aperte come la A e la E migrino nella direzione, rispettivamente, della O e della EU, oppure modellando tutte le vocali sulla forma della U. Per quanto riguarda la I, invece, essa deve essere modificata in I francese…

Alcuni poi hanno stabilito la distinzione tra un suono ‘aperto’ (inteso in senso negativo), che sarebbe il suono non arrotondato, e un suono ‘coperto’ (inteso in senso positivo), che sarebbe il suono ‘arrotondato’ nei modi sopra esposti. In realtà, il suono aperto è sbagliato solo perché limitato, nel senso che esso è creato da una sola cavità di risonanza, la bocca, invece che da due, la bocca e la gola, tra loro collegate sinergicamente. Pertanto il suono ‘aperto’ non deve diventare ‘coperto’ (che sostanzialmente significa che da orizzontale dovrebbe diventare verticale), dato che il vero spazio di risonanza del belcanto, essendo percepito come sferico in quanto ‘bicamerale’, deve continuare a contenere in sé anche l’ orizzontalità (vera fonte della brillantezza) e questo è il significato dell’ espressione belcantistica “voce spiegata”. Più concretamente, se teniamo conto che il senso di ‘sfericità’ è suscitato dal corretto rapporto sinergico tra i due unici spazi di risonanza reali della voce, quello della bocca e quello della gola, possiamo dire che il suono ‘aperto’ (in senso negativo) è dato dalla presenza predominante o esclusiva della bocca, e che il suono ‘coperto’ (in senso negativo) è dato dalla presenza predominante o esclusiva della gola.

L’ insidiosità delle teorie dell’ arrotondamento delle vocali e della copertura consiste nel passare disinvoltamente, come nel gioco delle tre carte, da una premessa indiscutibile, quasi la costatazione di un dato di fatto, quella cioè per cui lo spazio di risonanza di quando si parla è troppo ridotto per poter essere utilizzato nel canto, a una conclusione tutta da dimostrare, ossia quella secondo cui vocali come la A, salendo verso gli acuti, dovrebbero tendere alla O, la E alla EU, la I alla Y e così via, conclusione arbitraria che si scontra non solo con la logica elementare del buon senso, ma anche con tutta la tradizione didattico-vocale del belcanto. Ridicola in effetti suona la tesi secondo cui proprio le due vocali privilegiate dalla didattica belcantistica, appunto la A e la E, improvvisamente e misteriosamente sarebbero diventate difettose tanto da richiedere una ‘correzione’ che le trasforma in altre vocali e questa rappresenta un’ idiozia aggiuntiva, di cui si può prendere pienamente coscienza se semplicemente, parlando con un francese, si pronuncia ‘peur’ la parola ‘père’ e poi si sta attenti alla reazione dell’ interlocutore.

È chiaro insomma che applicando teorie del genere, il risultato che si ottiene è, come minimo, il passaggio dal canto vero e proprio al canto imitato.

Che cosa vuol dire canto imitato? Il canto imitato è quel canto prodotto con un controllo meccanico, esterno e localizzato degli organi della fonazione. L’ esempio classico è quello del bambino che fa l’ imitazione del cantante lirico, facendo il ‘vocione’. Non essendo ovviamente quel ‘vocione’ la sua voce naturale, autentica, genuina, VERA, il bambino ricorre ad aggiustamenti meccanici esterni quali l’ abbassamento diretto della laringe e l’ innalzamento diretto del palato molle (ossia all’ intubamento del suono), i quali però, essendo aggiustamenti muscolari grossolani, sono proprio quelli che gli impediscono di raggiungere il vero canto, che invece è sempre frutto di un controllo indiretto, globale, senso-motorio e olistico della voce.

Se ora analizziamo la modalità muscolare adottata dal bambino per fare il vocione e che abbiamo individuato appunto nell’ abbassamento meccanico diretto della laringe e nell’ innalzamento meccanico diretto del palato molle, scopriremo con nostra sorpresa che queste sono essenzialmente le stesse manovre ‘tecniche’, introdotte dalla foniatria, le quali formano il ‘metodo’ di moltissime scuole di canto attuali. In sostanza, tolta la superficie dorata delle spiegazioni ‘scientifiche’ su cui si basano queste teorie tecnico-vocali, si scoprirà paradossalmente che molte tecniche vocali ritenute ultra-specialistiche condividono la loro essenza, il loro nocciolo tecnico con il dilettantismo più naif e primordiale.

Occorre tener presente che canto di imitazione non è solo quello creato imitando un cantante reale, ma anche quello creato imitando un modello mentale, cioè uno schema rigido, prodotto dalla mente razionale, ovviamente influenzata dalle immaginazioni ‘scientifico-anatomiche’ elaborate da un secolo e mezzo di ‘foniatria artistica’.

Ci sono diversi gradi di imitazione vocale, nessuno dei quali assurge al livello del vero canto, ma alcuni dei quali riescono a simulare purtroppo una parvenza di tecnica vocale: in questo modo, nascondendo il grottesco che ne è la sostanza, i loro fautori riescono a diffondere i rispettivi ‘metodi’.

In realtà il suono imitato è un suono acusticamente distorto, che quindi non può generare la risonanza libera del belcanto. Il suono distorto è il risultato diretto o della modificazione intenzionale e diretta delle vocali (cioè della concezione mentale delle varie vocali), o del fatto di preimpostare lo spazio di risonanza sul modello di un forma statica, che in questo caso è quello di un tubo verticale, o del fatto di modellare le labbra su una forma fissa e statica (a imbuto-trombetta o a sorriso esterno).

In effetti questi espedienti sono il mezzo più facile per soddisfare (male) la giusta esigenza di spazio del cantante, motivo per cui sono diffusissimi, ma è superfluo ricordare che un surrogato non ha mai lo stesso valore del fenomeno (o prodotto) originale e autentico.

I fautori dell’ arrotondamento delle vocali, realizzato ricorrendo agli espedienti sopra indicati, molto spesso si ritrovano a esaltare quella che loro chiamano “punta del suono”, localizzata in una zona anatomica precisa, che solitamente è il palato duro. Non è un caso: infatti, una volta violentata in questo modo la purezza della vocale, la riduzione della brillantezza naturale che ne consegue, dovrà essere compensata artificialmente esasperando meccanicamente questa componente vitale del suono: di qui i frequenti inviti a ‘portare il suono avanti’ (o in ‘maschera’), a ‘proiettare’ il suono e a fare la ‘punta’ al suono, tutti sistemi meccanici compensativi che hanno come conseguenza immediata quella di rendere metallico il suono e aumentare la rigidità diffusa del corpo. In pratica tutto si configura ben presto come il classico circolo vizioso, cioè come un sistema dove i due poli della voce, brillantezza e rotondità del suono, non riescono più a trovare la loro naturale fusione armonica, perché meccanizzati o esasperati artificialmente, e vengono quindi tenuti insieme forzatamente come due cariche magnetiche dello stesso segno che si respingono.

Questo spiega anche perché i fautori dell’ affondo (ossia di quel metodo che assolutizza la dimensione opposta della profondità, dello spazio e del volume) poi sono costretti anch’essi a introdurre nel loro metodo l’espediente compensativo del metodo della ‘maschera’ (cioè proprio quello che aborrivano), mettendosi a prescrivere (e scrivere) di portare il suono in quello che nel libro sull’ affondo viene chiamato addirittura il “distretto palatale di collisione dei suoni” (sic).

Abbiamo parlato di purezza della vocale, che non deve essere intaccata da manovre pseudotecniche di “arrotondamento” del suono, ma concretamente da che cosa è determinata questa purezza?

Abbiamo visto che i fautori della ‘punta’ del suono molto spesso ignorano qual è la vera causa di questa caratteristica del suono cantato e si affannano a cercarla in determinati punti anatomici, variamente dislocati a seconda delle ‘tecniche’. In questo modo pensano e si comportano come quelli che credono alle illusioni ottiche e ai miraggi: infatti, invitando l’ allievo a far passare il suono dal ‘forellino posto nel palato duro’, essi si comportano come il toro della corrida che è convinto che il bersaglio da centrare con le corna sia il mantello rosso del torero e non il torero che lo fa muovere…

Analogamente la vera causa della ‘punta’ del suono, altrimenti detta ‘focus’, concentrazione, raggio laser della voce, non è la contrazione muscolare volontaria realizzata in corrispondenza di un dato punto anatomico, considerato ‘magico’, ma è, molto più semplicemente e naturalmente, la purezza della vocale, e la domanda che si pone a questo punto è: come si trova praticamente questa purezza?

Il concetto di ‘purezza’ del suono rimane una nozione astratta se non viene ricondotto alla sua causa, che è molto semplice e naturale: la ‘scintilla’ iniziale del suono parlato e il MOVIMENTO di articolazione sciolto ed essenziale del parlato. Al contrario, tutti quelli che si soffermano ad esaminare non la causa, ma l’ effetto e parlano di ‘punta’ del suono, di suono ‘raccolto’, di ‘posizione unica’ del suono, di ‘concentrazione’ delle risonanze, non si accorgono di porsi nella situazione di uno che volesse creare il movimento delle immagini di un film, muovendo lo schermo e ignorando totalmente l’ esistenza del proiettore. Questo proiettore nel canto non è rappresentato dalle fantasiose e infantili manovre del ‘portare il suono avanti’ (con o senza ‘giro’..), ma, ripetiamo, dal movimento articolatorio naturale con cui parlando si creano le vocali e le consonanti.

Stabilito quindi che la percezione (essenzialmente mentale) di questo ‘focus’ e di questo ‘centro’ delle risonanze è creata dal movimento di articolazione/sintonizzazione che crea le vocali parlate, ne deriva che qualunque modifica del concepimento e della forma delle vocali determinerà una distorsione del suono (il pensare il contrario implicando logicamente che sia per caso e non per necessità acustica e fisiologica che i movimenti e le forme delle vocali avvengono così come avvengono quando naturalmente parliamo e non in un altro modo).

Proporsi di limitare al minimo queste modificazioni delle vocali (finalizzate ad arrotondare il suono), come si illudono di fare quelli che parlano di ‘lieve adattamento’ delle vocali, non risolve affatto il problema della distorsione acustica che ne consegue, esattamente come se a uno dei pesi posti sui due piatti di una bilancia, qualcuno ritenesse ammissibile aggiungere qualche grammo in più rispetto a quello che determinerebbe il perfetto equilibrio con l’altro peso, e si giustificasse dicendo: “in fondo è solo questione di due grammi in più…” Analogamente sarebbe assurdo intonare un La a 442 Hz invece che a 440 Hz e minimizzare dicendo che si tratta solo di un “lieve adattamento” dell’ intonazione.

Rimanendo in tema di intonazione, sarebbe ridicola anche l’ idea di intonare le note di un’ aria operistica in modo diverso da come sono intonate le note di una canzone pop e questo è l’ equivalente della procedura di concepire le vocali di un’ aria operistica in modo diverso da come sono concepite parlando. Sia il fenomeno della formazione delle vocali, sia quello della creazione delle note musicali sono caratterizzati da una naturale istantaneità e immediata e perfetta ‘centratura’ e autosintonizzazione, che verrebbe distrutta se noi pensassimo di fare una A che però sia anche un po’ O, oppure di intonare un ‘la’ che però sia anche un po’ ‘sol diesis’… Ovviamente la nota ‘la’ è ‘la’ e non ‘quasi sol diesis’ così come la vocale A è A e non ‘quasi O aperta’.

Formazione delle vocali e intonazione delle note musicali fanno entrambe capo ad una stessa prima causa: il concepimento mentale naturale delle vocali e delle note. Parlando di ‘concepimento mentale naturale’, si fa riferimento a quel fenomeno, caratterizzato dall’immediatezza e dall’istantaneità, con cui, semplicemente PENSANDOLE, noi creiamo sia le vocali e le consonanti del discorso parlato, sia le note del discorso musicale vocale.

Il concepimento mentale NATURALE non ha nulla a che fare con la creazione INTELLETTUALISTICA della forma delle varie vocali, sulla base delle varie teorie del ‘fare la cupola al suono’ o del ‘fare una A pensando a una U’ ecc., che rappresentano solo una sovrastruttura statica, una gabbia, un gesso, creati dalla mente razionale statico-analitica in conformità a determinati modelli pseudo-tecnici.

Per indicare il suono prodotto dal concepimento/creazione naturale immediato delle vocali pure, i belcantisti parlavano significativamente di “suono franco” (Tosi) e di “pronta impulsione” (Mengozzi), mentre Lauri Volpi parlava di “suono sorgivo”. Per indicare invece il suono prodotto dagli intellettualismi pseudo-tecnici delle vocali ‘adattate’ (alias geneticamente modificate…) i belcantisti parlavano di “suono affettato”, mentre Lauri Volpi parlava di “suono retorico”. In epoca di surrogati come la nostra, potremmo parlare appropriatamente nel nostro caso anche di ‘fake’ e di ‘patacche’.

Una precisa corrispondenza è pertanto rilevabile tra i principi elaborati dai belcantisti e quelli elaborati da quei cantanti del Novecento, come Caruso e Lauri Volpi, quei cantanti cioè che erano dotati di una mente più lucida di quella riscontrabile nella media dei cantanti, la cui vocazione-deformazione professionale, si sa, è quella di essere ‘animali da palcoscenico’ e non certo ‘filosofi da pensatoio’.

Tenuto conto del tipo di vocalità e di repertorio dei due cantanti sopra citati, ciò è sufficiente per eliminare come falsa la teoria pseudo-scientifica secondo cui la necessità moderna di superare la ‘barriera orchestrale’ avrebbe reso necessaria la creazione di una nuova tecnica vocale, basata, tra l’ altro, sull’ arrotondamento-distorsione delle vocali.

Posto che il focus e la ‘punta’ del suono sono creati non dalla manovra meccanicistica dell’adattare le varie vocali alla forma di un contenitore prefissato (ciò che ipso facto distruggerebbe la mobilità acustica di cui vivono la voce parlata e cantata), ma sono creati dal mantenimento del MOVIMENTO di articolazione naturale nel suo asse orizzontale-circolare (e non verticale!), la domanda che sorge spontanea, è: come si fa a trovare quello spazio un po’ più ampio, di cui ha bisogno la voce cantata, senza che il suono venga ingrossato e distorto come succede con la teoria del piccolo ‘adattamento’ delle vocali?

È chiaro che trattandosi di opposti (concentrazione ed espansione, punta e spazio), l’ operazione che rende possibile la loro conciliazione assomiglia al virtuosismo di quello che si configura realmente non tanto come una quadratura del cerchio quanto come una ‘cerchiatura del quadrato’.

Possiamo intanto preliminarmente e propedeuticamente fissare dei concetti ‘chiari e distinti’, proponendo un paragone: quello tra la struttura del suono cantato, da una parte, e la struttura dell’ atomo, della cellula e, più astrattamente, del cerchio e della sfera, dall’ altra. Esse hanno in comune la distinzione tra un nucleo/centro e uno spazio vuoto che lo circonda. Se immaginiamo che il nucleo del suono cantato è rappresentato dalla vocale parlata, ci renderemo conto di come l’ ingrossamento o l’ alterazione di questo nucleo (che è l’ operazione cui ricorrono quelli che teorizzano la modificazione genetica delle vocali) determini automaticamente la distruzione di questa struttura.

Il vero ‘arrotondamento’ del suono potrà pertanto avvenire soltanto espandendo lo spazio circostante il nucleo, essendo ovvio che un nucleo ‘spazioso’ non è più un nucleo.

Come avviene questa espansione dello spazio INTORNO AL nucleo ( e non DEL nucleo)?

La risposta (geniale) della scuola italiana del belcanto (vedi la formula del castrato Pacchierotti) è: grazie al respiro. Più precisamente: cogliendo e sentendo sempre più profondamente il momento di distensione passiva connessa ad ogni vera inspirazione globale naturale (vedasi il sospiro di sollievo), si crea il seme di quello spazio che negli acuti ‘sboccia’ (la ‘voce spiegata’ dei belcantisti), lasciando pura la vocale e perfettamente sintonizzato il suono, senza alcun ‘ingrossamento’, ‘spinta’ o altra contorsione muscolare compensativa.

Ne deriva che tutti quei grandi cantanti (come ad esempio Pertile), che hanno fatta proprio (per fortuna solo teoricamente) il condizionamento culturale del proprio tempo, decidendo di vedere il fenomeno canto ‘sub specie Garciae’ (cioè attraverso le lenti deformanti della voce bicolore e delle vocali geneticamente modificate di Garcia), hanno accettato questa interpretazione semplicemente perché non avevano coscienza della distinzione tra ‘contenuto’ e ‘contenitore’, tra ‘nucleo’ e ‘spazio’. In altre parole percepivano giustamente che lo spazio espanso del canto non è quello ridotto del parlato, ma credevano erroneamente che a ingrandirsi fosse il nucleo del suono (la vocale pura del parlato) invece che lo spazio vuoto al centro del quale è dislocato.

Esiste pertanto un solo modo per creare le vocali pure nel canto: quello automatico, sciolto ed essenziale, con cui (da sole!) si pensano e si dicono le vocali e le parole parlando, tenendo conto che nella realtà vissuta (diversamente di quanto succede nella realtà virtuale delle fantasie foniatriche) ‘pensare’ e ‘dire’ sono lo stesso processo e non due momenti distinti né tanto meno due processi diversi.

Una qualsiasi alterazione che riguardi vuoi l’ asse orizzontale-circolare, vuoi la mobilità labiale e linguale, vuoi il tempo naturalmente istantaneo (ma non velocizzato) di cambio delle vocali, vuoi l’ escursione dei movimenti di questa modalità motoria naturale (e perfetta!) denominata articolazione parlata, comporta una distorsione acustica e quindi la risonanza forzata. Questo non significa che salendo al settore acuto la bocca non debba aprirsi gradualmente per assecondare il processo di progressiva espansione dello spazio interno, il che non è in contraddizione col principio del ‘si canta come si parla’, dal momento che è ciò che facciamo naturalmente quando chiamiamo ad alta voce qualcuno da lontano.

Anche in questo caso i frammenti del sapere perduto del belcanto ogni tanto per fortuna riemergono per bocca di qualche grande rappresentante di questa tradizione, che ha provveduto a illuminare per un attimo l’orizzonte oscurato dai tubi verticali e dalle vocali geneticamente modificate, e questo rappresentante (novecentesco) è Enrico Caruso, il quale autorevolmente e lapidariamente ha scritto:

“Chi si intende di canto, sa che la gola si apre in virtù della respirazione e che per aprirla non è necessario aprire più di tanto la bocca. Eccezion fatta per gli acuti, la bocca si apre come quando si sorride.”

La possibilità (e quindi la tentazione) di modificare i movimenti articolatori in funzione di quello che viene considerato pregiudizialmente il ‘bel suono’ è paradossalmente proprio la causa che ipso facto ci allontana dal vero ‘bel suono’ del vero ‘bel canto’, dove la bellezza del suono è un effetto collaterale indiretto della ricerca della naturalezza profonda e non un effetto ricercato di per sé e ‘assolutizzato’ (cioè, in senso etimologico, ‘distaccato’ dalla globalità vivente del fenomeno) così come accade con le tecniche estetizzanti di matrice pseudo-belcantistica. Con queste tecniche il ‘bel suono’ diventa un feticcio e viene appunto distaccato dalla vera causa che lo produce naturalmente. In tal modo anche i vari aspetti di questa bellezza, in primis il legato, che nella tecnica belcantistica emerge naturalmente e automaticamente, essendo un elemento strutturale del linguaggio umano, diventano una realtà estetica che si crede di poter creare ex nihilo e ‘aggiungere’ all’ emissione, per di più ricorrendo ad assurde modalità meccanicistiche, quelle rese necessarie dallo stravolgimento dell’equilibrio naturale della voce, così che esso si pone in conflitto proprio con quell’ elemento che naturalmente lo genererebbe: il movimento sciolto ed essenziale dell’ articolazione naturale parlata, collegato da un rapporto di ‘indipendenza sinergica’ con la respirazione naturale globale del belcanto.

Si riconferma quindi la validità di quella legge universale che rende possibile e governa il vero canto (alias bel canto): tutti gli elementi costitutivi del canto possono essere introdotti e appresi SOLO per via indiretta e non per via diretta, e basti pensare, come esempi di effetti che non dipendono da sé stessi ma da altre cause, al vibrato, ai colori della voce, all’ apertura e alla forma dello spazio di risonanza, all’ abbassamento della laringe e all’ innalzamento del palato molle, all’articolazione, alla respirazione, al legato ecc. ecc. La stessa cosa dicasi del ‘bello’ del ‘bel canto’.

A proposito dei nuovi operisti Verdi diceva che mentre Shakespeare era “un verista di ispirazione”, questi erano dei “veristi per progetto”. Analogamente si potrebbe dire che i moderni teorici del suono “corretto”, “perfezionato”, “adattato”, ottengono come risultato non l’ autentico belcanto, ma un belcanto “per progetto”, dove per “progetto” si intende la sostituzione della realtà con i propri schemi razionali precostituiti, in altre parole l’ imitazione esterna del fenomeno autentico e originario, ‘adattato’ al letto di Procuste dei propri pregiudizi intellettuali. Insomma un belcanto come ‘artificio imitativo’, ‘prodotto estetizzante’, in una parola (antica) “affettato”.

Siamo ricondotti così ai principi da cui è scaturito storicamente il vero belcanto: l’ intuizione di una dimensione profonda della Realtà, che l’arte semplicemente rivela e fa emergere, e non crea dal nulla, come invece teorizzato da tutte le concezioni demiurgiche prodotte dalle ideologie scientistiche e dalle ideologie estetistiche.

Antonio Juvarra



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