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VERSI – Alessandra Racca: L’amore non si cura con la citrosodina

Creato il 31 luglio 2014 da Viadeiserpenti @viadeiserpenti

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VERSI – La rubrica dedicata alla poesia

A cura di Anna Castellari e Chiara Rea

Alessandra Racca è nata a Torino nel 1979. Ha pubblicato Poesie antirughe e, sempre per Neo Edizioni, è uscito nel 2013 il volume L’amore non si cura con la citrosodina, raccolta di riflessioni in forma di versi sulla vita, l’amore, le contraddizioni, i legami familiari, le cose piccole che rivelano un mondo di verità mai sbandierate come incontrovertibili. Racca porta in giro le sue poesie con la sua voce in reading che vanno da nord a sud su tutta la penisola, fa spesso il tutto esaurito e, non contenta, organizza e partecipa a gare di poesia nella sua città natale e altrove.

I suoi versi mostrano il mondo crudo ma accogliente, se lo si sa guardare con il distacco di chi riesce a sintetizzarlo nella scrittura. Potremmo parlare di una poesia consolatoria? Non proprio, ma forse soltanto perché “consolatoria” è un aggettivo che tradisce una vena di negatività. Forse, il termine esatto è “dolceamara”.

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Buongiorno Alessandra. Per prima cosa vorrei chiederti quando e come hai iniziato a scrivere poesia.
Buongiorno a te (voi). Ho iniziato a scrivere poesia, come moltissimi, in adolescenza. Scrivevo versi brutti e pretenziosi che mi fanno molta tenerezza riletti ora. Poi, per fortuna, ho smesso di scrivere poesie e mi sono formata. Ho letto, ho fatto esperienze altre di scrittura, sono cresciuta. Ho ricominciato a scrivere poesie attorno ai venticinque anni, con la fine dell’università, in piena crisi esistenzial-occupazionale e sentimentale. Stavo cambiando pelle e, come a volte accade, questo tipo di cambiamenti in atto mi dava modo di osservare le cose con quella sorta di “meraviglia” e “sguardo laterale” che sorgono a volte dalla perdita di punti di riferimento e che per me è molto fecondo per la scrittura. C’era qualcosa di simile agli anni dell’adolescenza in quel periodo – lo smarrimento, l’osservare molto, essere alla ricerca di senso, l’essere molto in contatto con la propria “voce” – però nel frattempo ero maturata e la mia voce si era fatta diversa. Poi non ho più smesso.

La tua poesia è fatta di piccole cose che, procedendo per gradi, sviscerano grandi verità, senza avere la pretesa di essere verità universali fanno parte del vissuto di chi scrive. Come lavori normalmente per arrivare a questo?
Non credo di essermi mai detta “adesso parto da una cosa piccola della vita quotidiana per procedere verso una ricerca di significato più ampia”, ma ciò che desta la mia attenzione (poeticamente parlando) ha già in sé quella che potrei definire “una direzione”: ci sono oggetti, eventi della vita quotidiana, pensieri, idiosincrasie che mi colpiscono perché funzionano come varchi verso una dimensione altra, carica di senso. Spesso le poesie nascono da epifanie. Questo non si sceglie: non mi dico “ora parlo di questo”, accade. Il fatto che la mia attenzione vada sul piccolo avviene forse perché, senza questa dimensione “altra”, la vita di ogni giorno mi sarebbe insopportabile e muta. Però il “lavoro” vero e proprio lo faccio sul linguaggio, nel senso che la maggior parte delle volte una poesia nasce da un agglomerato di parole, da un ritmo, che cerco di seguire. Non so perché una parola a un certo punto ti pare perfetta per quel verso, mentre ne hai provate e scartate altre dieci, però è così, a un certo punto sai che quella parola è giusta. Allora il lavoro più grande che faccio è cercare la precisione del linguaggio, una precisione che porta in sé una sorta di accordatura, di armonia fra il suono e il senso delle parole. Non è semplicissimo da spiegare e in parte è un processo abbastanza misterioso anche per me, la sensazione è quella che le poesie “si scrivano” e di “seguire una voce che detta”, ma ovviamente non è così. Credo si tratti semplicemente di uno stato di grande concentrazione in cui si permette a parti inconsce di emergere e al contempo si prendono tantissime decisioni coscienti, si operano tantissime scelte nello scrivere una poesia.

Qual è l’importanza dell’oralità nella tua poesia e nella poesia in generale, oggi in Italia?
Non so se si possa parlare di oralità nella mia poesia: io le poesie le scrivo e le penso sulla pagina, questo mi porta molto lontana da tradizioni orali in senso stretto. È vero però che la poesia che scrivo è molto legata al suono e al ritmo, come spiegavo sopra, ed è ad alta voce che leggo quello che scrivo per capire se “mi va bene”. È poi altrettanto vero che già prima che venisse edito il mio primo libro, ho iniziato a fare delle letture pubbliche, perché amo moltissimo dare spazio alla dimensione sonora delle poesie che scrivo e mi piace farlo da me, perché è così che voglio vengano lette. In uno scatenato delirio di onnipotenza vorrei poter leggere ad alta voce le poesie che scrivo a chi le incontra, molto più di “essere letta” dai lettori. Quanto alla situazione italiana, conosco molte persone che condividono come me questo modo di scrivere, inglobando nel processo di scrittura la dimensione “ad alta voce” e considerando quello delle letture in pubblico un atto comunicativo al pari della pubblicazione.

Parlando sempre di oralità, ricordo che i tuoi lavori spesso sono ascoltabili attraverso i reading che compi in giro per l’Italia. Come è iniziato questo tuo lavoro sulla voce e la performance? Come si sta evolvendo?
È iniziato nel salotto di casa mia. Avevo queste poesie che non avevo mai fatto leggere a nessuno, ma desideravo farlo. Allora ho invitato un po’ di amici diversi per un tè e ho letto loro le poesie, avvisandoli di essere sinceri e spietati: “Se fanno schifo dovete dirmelo”. Volevo vedere le loro reazioni perché trovo non ci sia molto di più veritiero nella reazione di un pubblico, per quanto fosse piccolo quel mio primo: se quello che fai non piace, non arriva, lo percepisci, perché l’energia non circola, le persone si distraggono. Uno può mentirti, venti no. Mi son detta, se quello che scrivo può interessare venti persone oltre a me, forse può riguardare e essere interessante anche per altri. E così è stato. Di lì a poco ho organizzato un’altra lettura pubblica e così via, le situazioni hanno iniziato a moltiplicarsi. All’inizio avevo una paura e un imbarazzo tremendo, leggere ad altri mi piaceva e mi terrorizzava: ho imparato a leggere in pubblico leggendo in pubblico, avevo fatto delle esperienze di teatro in precedenza che sicuramente mi sono servite, tuttavia credo di essermi ritagliata un “modo” mio di relazionarmi con il pubblico e il testo a partire proprio dalle mie paure, esponendomi e rischiando sempre un po’ di più. Non ho seguito un metodo, ma l’istinto, avendo rispetto della mia timidezza e giocando con il mio narcisismo. Ho iniziato usando oggetti e “travestimenti” perché mi proteggevano, poi sono arrivata a fidarmi della lettura pura. I pregi e i limiti di questo modo di fare sono molto evidenti, credo, nel bene e nel male. Non ho cercato il virtuosismo, ho cercato il piacere per me perché ho visto che questo si trasmetteva agli altri. Non sono un’attrice, ma ho chiaro il fatto che se scegli di leggere poesie in pubblico devi porti delle questioni. Non si tratta solamente di leggere ad alta voce davanti ad altri. Si tratta del tuo corpo intero, di come vuoi muoverlo, si tratta di direzionare l’attenzione altrui, si tratta di decidere come usi il testo, il tempo, le pause. Ho collaborato con musicisti e musiciste e questo mi ha aiutato molto, oltre a farmi percepire chiaramente la differenza fra un testo letto a “voce nuda” e un testo letto interagendo con la musica. Ora, pian piano, sto superando la poca fiducia nella mia memoria e il mio tenermi saldamente ancorata “fisicamente” alla pagina, e sto sperimentando “il dire” a memoria. Questo cambia ancora di un po’ le cose.

Le piccole cose riguardano il presente ma anche il passato. Penso per esempio alle poesie dedicate a tuo nonno, nel quale rivive un dialetto piemontese in una scrittura mimetica molto interessante. Per te, suppongo che si tratti della lingua della famiglia, con la quale si ha un rapporto viscerale. Come è nato il tuo lavoro di scrittura in dialetto?
La poesia che citi è l’unica che io abbia scritto, a oggi, in dialetto, perché mio nonno e il suo mondo non potevano che essere raccontati così, attraverso questa lingua. Il mio lessico familiare è l’Italiano, infarcito di piemontesismi e di slang, è la lingua dei miei genitori, di me e mia sorella ragazzine. Il dialetto è una lingua che so e che saprei anche parlare, ma che non pratico. È la lingua dei miei nonni e di una grandissima parte della mia infanzia; ora, per me è anche la lingua del passato, perché i miei nonni non ci sono più e infatti l’ho usata per raccontare la morte del mio ultimo nonno e, con quel lutto, la fine del rapporto vivo e diretto che avevo con il suo mondo lento, radicato nella dimensione piccola del paese, obsoleto, pensionato. Un mondo che è legato a doppia mandata con il Piemontese. Dopo non ho più avuto altre esperienza di scrittura in dialetto, ma so che è una lingua molto feconda per me. Una cosa certa è che quella poesia è stata scritta in dialetto anche perché sapevo che l’avrei letta in pubblico, il dialetto, per me, esiste unicamente fuori dalla pagina.

Spesso vieni “incasellata” nel gruppo di poeti che lavorano facendo performance, poesia ad alta voce, contrapposto all’altro gruppo di coloro che invece lavorano sulla carta e non sull’oralità. A mio parere questa è una classificazione ormai superata, per cui l’importanza di un poeta non va situata nel suo fare o no performance, ma nella qualità dell’indagine linguistica, nell’espressione di contenuti inediti e nella capacità di fare breccia nel pubblico. Tu come ti poni in questo dibattito?
Non mi pongo in nessun modo perché lo trovo abbastanza inutile posto in termini di “chi è meglio di chi altro”. Quel che conta è la qualità e la consapevolezza del mezzo che si utilizza. Leggo grandi schifezze pensate solo e unicamente per essere lette e assisto a letture ad alta voce capaci di imbarazzare e annoiare come poche altre cose al mondo. Così come, invece, sono grata all’autore quando leggo e quando ascolto cose che mi piacciono. Detesto gli atteggiamenti di chiusura da ambo le parti. Il mondo della poesia può essere un gran pollaio, con tutto il rispetto per galline, pavoni, galli, tacchini e affini.

Negli ultimi tempi il fenomeno performativo si è tradotto anche nella “istituzionalizzazione” delle gare di poesia con vincitori scelti dal pubblico, il famoso poetry slam che in Italia ha mosso i primi passi nei primi anni duemila grazie al lavoro di Lello Voce. È nata così la LIPS, Lega Italiana Poetry Slam, che ha formato un vero e proprio campionato nazionale la cui prima edizione si è conclusa a maggio scorso a Monza. Vuoi parlarci di questa esperienza? In quale modo sei coinvolta in questa esperienza?
Partecipo e organizzo poetry slam da qualche anno e l’idea di creare una connessione fra le varie scene italiane che permettesse a poeti e organizzatori di circuitare e confrontarsi mi è parsa un’ottima cosa, perciò ho aderito e ora faccio parte del gruppo di coordinamento della Lips. Molto si è fatto e molto c’è da fare. Personalmente mi interessa lavorare sull’internazionalizzazione – in modo che lo slam italiano entri in contatto con le scene europee – sulla formazione e di conseguenza sulla qualità delle performance e dei testi che si offrono al pubblico. Poi, lavoro su Torino, che è la mia città, e rispetto alla quale sono molto orgogliosa del lavoro che si è fatto in questi anni, insieme ad altri, per avvicinare il pubblico a queste serate di poesia.

Che libri hai sul comodino?
Sto leggendo Il sopravvissuto di Antonio Scurati, però sul comodino ci sono anche i libri che sbocconcello: Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, La scrittrice abita qui di Sandra Petrignani e La natura sadica del racconto e altre storie di Domenico Matteucci, oltre a un’altra decina di libri già letti o interrotti. Sono un’inguaribile disordinata e le pile crescono sul mio comodino fino a che un crollo o l’eccesso di polvere fa sì che io faccia qualcosa per riordinare.

Mia mamma è un fiore abusivo

Ah mamma, come mi spunti!
Come faccio a nasconderti ora
che ti sei infilata perfino
nel modo in cui porto alla faccia
le mani, storte all’indice — come le tue
ossa costole che spuntano fuori
evidenze e d’improvviso
voglio sapere i nomi delle piante
con l’aria frivola che è tua
quando domandi al mercato
Quanto la devo annaffiare?e tramesto vasi e gelsomini e bulbi
arrampicata per aggappare
foglie e rami al nido
guarda come sto in bilico
sfidando scale e basse stature
per far germogliare
la parete di casa (e la vita)
ed io che ti dicevo Ma fai attenzione
non rischiare il collo per un addobbo!
Tu mi spunti mamma
come fiore di un seme portato dal vento
nel vaso che era di basilico e ora
è carico di petali abusivi e spavaldi
e a me che sempre hanno detto
come somiglio a papà
stupisco di questa fioritura
l’indipendenza, mamma, l’essere me
è scoprirti dentro i miei bicchieri rotti
e disordini e pasticci
tenerti finalmente qui
non avere più paura
d’essere tutta.

Backstage

Alle ragazze piacciono i ragazzi che fanno le cose sui palcoscenici.
I ragazzi sopra i palcoscenici sono diversi quando scendono dai palcoscenici.
A volte le ragazze ci rimangono male perché
vogliono i ragazzi che fanno la cose sui palcoscenici
come erano sopra i palcoscenici non come sono sotto i palcoscenici.
Ma l’amore è poco palcoscenico.
È più una roba da backstage.

Ora legale

— che ora è?
— quella che ieri era un’ora fa

la chiamano legale
ma sbagliano
le galere dovrebbero essere piene
di tutte queste ore senza te

Sebastiano (1912-2006)

Che se muoio
muoio serenamente
che se muoio
muoio serenamente
è la volontà di Dio.

“Varda ch’à jè la giassa
varda ‘nt la cort, à jè la giassa

Mio figlio dice “no”:
“No papà, à jè pa la giassa,pa ancora”

À jera la giassa
quando facevo all’amore contro il muro della chiesa
“le braghette giù
contra la muraja d’la cesa”.

“C’erano le negrette
quand’ero in Eritrea
à jera pa la giassa
quand’ero soldato in Eritrea”
non c’era il ghiaccio che c’è qui.

[...]


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