Speciale: Sergio Toppi: pennellate d'artista
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Ritratto di Sergio Toppi, a opera di Caktus&Maria (caktusemaria.blogspot.it)
Mi è capitato da poco di dover rileggere I sette messaggeri, racconto di Dino Buzzati edito nel 1968 e incluso nella raccolta La boutique del mistero. Si narra di un principe che vuole esplorare l’immensità del regno di suo padre: partito ancora giovane insieme a sette messaggeri, che si alterneranno per recare notizie a casa, si accorgerà presto che quel mondo non ha confini e che la distanza percorsa negli anni di cammino è ormai troppa per poter tornare indietro e rivedere vivi i suoi cari. La logica impone che l’ultimo messaggero inviato non consegnerà mai l’ambasciata.
Come in molte delle storie di Buzzati – si pensi al romanzo Il deserto dei tartari – lo spazio, il tempo e l’ambiente che contengono le vicende sono totalmente sfocati, universali e quindi inesistenti. Le montagne e le pianure che oltrepassa il principe sono qualunque montagna e tutte le pianure, senza limite né confine; così succede anche per la storicizzazione degli episodi.
È stata proprio questa lettura e il coinvolgimento con l’inquietudine suscitata dal testo a proiettarmi per analogia nel mondo sospeso di Sergio Toppi, un mondo in cui tutto racchiude un significato preciso e tutto diviene simbolo.
Nato nel 1932 a Milano, “schiva” un’ipotetica carriera da medico ed entra subito nel mondo dell’illustrazione, lavorando per la UTET a partire dagli anni ‘50 per poi collaborare con gli studi d’animazione Pagot in diverse campagne pubblicitarie. A partire dagli anni ‘60 inizia la sua carriera di fumettista disegnando per il Corriere dei Piccoli le storie del Mago Zurlì.
È da quel momento che inizia l’inarrestabile ascesa di Toppi nell’universo del fumetto con collaborazioni sempre più prestigiose: spulciando nella sua bibliografia salta all’occhio Sgt. Kirk, Ken Parker, Alter Alter, Il Mago, Corto Maltese, L’Eternauta, Linus e Comic Art. Dal 1976 inizia a lavorare per il settimanale cattolico Il Giornalino e in seguito realizzerà episodi di Julia, Nick Raider e Martin Mystère per la Sergio Bonelli Editore.
La poliedricità di Toppi non si fermerà solo al fumetto, ma la sua penna darà vita a tavole sfruttate dal Messaggero dei Ragazzi, dal Corriere della Serae dalle edizioni Einaudi.
Nel 2009 la sua fama viene coronata definitivamente: il Comune di Lucca e il ministero dei Beni Culturali lo insigne del “Comics Day Anno Zero”, primo fumettista a ricevere un premio dalla Repubblica Italiana.
Proprio per via di questa importanza e della diffusione capillare della sua arte, sono certo che almeno un suo disegno giaccia sepolto nella memoria di qualunque italiano. È proprio questo che rende importante il lavoro di questo disegnatore: essere stato la mano in grado di unire qualunque sfera sociale con storie adatte a tutti, ma leggibili con gradi di interpretazione molto diversi.
La riconoscibilità del tratto, che senza esagerazioni può essere definito klimtiano o idealmente vicino al gusto di Egon Schiele, è immediata, come lo è la magia che emana dal montaggio delle immagini nel riquadro della pagina.
Quando si leggono le storie di Toppi – e ritorno sull’analogia con Buzzati – si entra in un mondo senza tempo e senza evoluzione geologica, in cui la natura è principalmente roccia.
Si provi a sfogliare Il collezionista (1984) o Sharaz-de (1977): tutto è pietrificato, immobile e immutabile. I volti dei suoi personaggi condensano nelle loro espressioni il fatto che nulla potrebbe essere differente da come il destino, cioè la storia concepita dall’autore, vero e unico dio del loro mondo, ha stabilito.
Fu lui stesso a sostenere durante alcune sue interviste di essersi ispirato ai paesaggi pasoliniani dell’Edipo re: Pasolini ‘inventò’ per quel film un oriente “occidentalizzato” del tutto immaginario, ricreato in luoghi suggestivi quali il deserto attorno a Ouarzazate (Marocco) o l’italianissima scalinata di San Petronio in Piazza Maggiore a Bologna.
Ne nacque da quel momento un mito nuovo, personalizzato, capace di dialogare anche visivamente con lo spettatore. Il concetto base che si evince leggendo entrambi gli artisti è che lo spazio è indubbiamente necessario al racconto, ma il racconto non esige uno spazio in particolare per essere credibile: ciò che circonda la storia diventa storia a sua volta se dosato con la giusta regia.
Tutto è psicologico e rimanda all’inconscio degli attori in campo: la spigolosità discontinua delle linee e dei tratteggi, lo sfondamento delle barriere e quindi dei limiti imposti dai tradizionali riquadri, gli innesti e le compenetrazioni visive, gli animali che di volta in volta fanno capolino nelle vignette e strizzano l’occhio alle fiere allegoriche di Dante.
La distorsione nei confronti della tradizione si completa con una significativa inversione di tendenza: il suo è un fumetto in cui i vuoti e i silenzi sono fondamentali. Ecco che il bianco diventa più preponderante del nero e la potenza dell’immagine esplode proprio grazie alla mancanza di elementi.
Da quanto detto è facile capire perché i livelli di interpretazione debbano essere molteplici quando ci si accosta alla sua produzione: non è sufficiente una lettura superficiale di queste opere per capirne le giuste (e mai univoche) prospettive.
“Chi potrà disegnare un albero senza diventare un albero!” mi pare sostenesse Nietzsche: Sergio Toppi è stato un tempo Sharaz-de ma le sue storie allieteranno per sempre il gran re Shahriyar.
Almeno fino a che l’alba sarà lontana e con lei la morte che incombe.
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