Magazine Racconti
Le immagini di Strilla, così vivide in me bambina, si fanno chiare, poi trasparenti e infine cambiano sostanza: io divento adulta e le cose prendono contorni ed equilibrio, e l'irrequietezza cambia oggetto (sto riflettendo sul diavolo? sulla morte?).
Fosca, che prima è tanto mansueta, piccola di statura, coi denti di latte e disposta all'amore fisico e alla tenerezza, si lascia sfigurare dalle virtù maschili. Per contraddizione i seni si colmano, il fisico è glandolare e muscoso d'un tratto invitante ma nelle viscere e nella testa si accavallano gli effetti di uno spirito ferrigno. È il mio primo periodo di femminilità, divento appetibile in quanto donna, ripugnante perché selvatica.
In generale non sopporto che mi si tocchi, sono litigiosa. Per un certo tempo frequento un venditore di macchine col quale condivido una stanza sopra il suo salone. Una volta, la peggiore, arriviamo alle mani e vengo ripudiata. La mia vita adulta comincia in mezzo a una strada mentre un uomo tumefatto e graffiato mi caccia di casa. Io, che ho combattuto, che ho fatto le scale a spintoni, oltraggiata dai miei abiti e altri oggetti, dalle imprecazioni e dai miei libri che piovono tutto insieme e in disordine addosso, raccolgo solo un cappotto e la bibbia, e giuro davanti alle macchine esposte in vetrina che mi vendicherò.
Sono in mezzo a una strada.
Per qualche notte mi arrangio in stazione, poi mi rivolgo alla Pubblica Assistenza e finisco in un dormitorio che in passato è stato addirittura una villa; quello che ne resta, vale a dire una casa di disegno nobiliare e infissi in alluminio, pressoché sempre soffocata di sporco, lo si vede ancora oggi passeggiando nella periferia della città.
Le dodici stanze concepite all'origine si sono moltiplicate grazie a un sistema di pareti di cartongesso, e così possiamo viverci in diciotto persone. Il governatore accetta di tenermi purché faccia qualcosa per la struttura. Mi propongo come donna di fatica. Al mattino quando gli ospiti se ne sono andati a cercare lavoro, prostituirsi o drogarsi, passo lo straccio nelle stanze e pulisco i bagni.
Chi si sente abbandonato dal mondo per prima cosa abbandona se stesso. Nel dormitorio trovo di tutto. Certe persone conservano perfino i mozziconi di sigaretta, i vasetti di yogurt e le carte dei chewing-gum. I vestiti sono ammassati sulle sedie e hanno un odore di cimice. Per conto mio, so che non devo lasciarmi andare: osservo una meticolosa pulizia del corpo e cerco di migliorare il mio aspetto. Quando mi metto il grembiule, prima di iniziare il giro delle stanze, guardo nello specchio dove gli uomini si fanno la barba, pizzico le guance, mi prendo i seni nelle mani e sorrido. Ce ne fossero, di donne come Fosca.
Il fatto che alcuni inquilini avessero l'abitudine di liberarsi nel bidet mi ha dato modo, nei mesi, di giocare qualche bel tiro al mio primo convivente.
Conservavo il lordume in secchi che tenevo nascosti in cantina, uno dei posti dei quali mi ero conquistata la chiave e in cui non andava nessuno. Partivamo la notte in comitiva, io e altre due ospiti anziane sulla trentina, armate di guanti da giardinaggio, e spalmavamo lo sterco sulle vetrine del salone, e in particolare sulla maniglia dell'ingresso. Non ho mai capito perché quelle donne, due tedesche bellissime, accettassero il rischio di essere scoperte, o peggio, picchiate dal mio vecchio compagno. Penso che facesse loro piacere passare qualche momento in cui potevano dimenticare tutto. A missione finita passavamo la notte sulla spiaggia. Eravamo calde, anzi, scalmanate, e ridevamo. Se ne avevamo, bevevamo vino tutte insieme, altrimenti lasciavo che si allacciassero sulla sabbia e camminavo fino all'alba. Così, tribadi ed ebbre, mi permettevano di pensare al mistero dell'amore.
Ancora adesso conservo una foto del dormitorio e la tengo appesa nel soggiorno dell'appartamento di via Verdi. Il posto dove abito è l'ultimo piano e nessuno dei due sa che ci avremmo abitato insieme, la prima volta che incontro Florio.
Succede, frequentando certi bar, d'incontrare certa gente. Me ne rendo conto adesso che la chitarra appoggiata sul tavolo ha fatto un rumore come di aruspice, e cioè presago e insensato mentre lui si spoglia per dormire. Non mi posso abituare. Se gli sfioro i capelli c'è qualcosa di odoroso e forte e lo porto nel naso. Se mi parla lo fa senza parere. Fuma in modo disordinato. Non tira l'acqua. Mangia cose fredde. Ha una quasi dipendenza per la caffeina. Sorride da solo. La barba lo rende foruncoloso. Se non pensa guarda qualcosa di lontano per me e per lui e sfiora il cavallo dei pantaloni.
È educato, educazione di manico e di musica, anche adesso che mi abbraccia. Lui mi abbraccia e la camera adesso sul serio sembra vuota e la notte impossibile. Ma non solo la notte è possibile, è perfino esistente.
Ma no, dice che non c'è niente che non è niente e io non posso avere visto nulla e mi stringe e mi rimette a dormire, io qui lui là, tu qui bambina, io là uomo grande uomo nervoso, tu qui arrotolata, ranocchia tutta cosce, testa bionda, sei ruvida selvatica, ma piccola, diomio, piccola da poterti guardare, ancora con la forfora in scaglie e poco odore addosso, niente di stantio, tutto ancora succo, forse anche moccio ma va bene. Sì, va bene. Anche le pillole ai piedi del letto e il bicchiere e l'acqua che al mattino è rancida di bottiglietta di plastica. Non puoi, non posso stare lontano, ci sono troppi anni per stare lontani.
Fosca e le mani di Florio dalla vita alle spalle: riconosce la bravura, la diversa pressione, la delicatezza il sentimento più e più volte riprodotto: la forma delle emozioni tattili sui corpi di legno e di carne è la forma del musicista dell'artigiano dell'uomo che ammazza i conigli sul colpo. E Florio mi chiude gli occhi la notte in cui è rientrato e ha appoggiato la chitarra sul tavolo, e proprio un momento prima che la luce resti fuori del tutto e la mente si trovi appoggiata a se stessa e sola, quello che credevo di non aver visto si porta nell'ultimo bagliore di mondo fisico prima del mattino. E sorride.
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