Magazine Cultura
Sardo,
di Pierluigi Montalbano
Era una notte d’estate e Sardo decise di avvicinarsi al mare e guardare l’orizzonte. Il buio era ovunque, la vegetazione schermava le poche luci del villaggio, il cielo era scuro e immenso, ma una grande luna, luminosa e bruna, si specchiava vicino all’isola che ogni giorno offriva i suoi frutti e proteggeva dal caldo sole la famiglia dell’uomo. La risacca batteva aritmicamente confondendosi con la brezza notturna e lontano, all’interno del villaggio, un vociare confuso non consentiva a Sardo di ascoltare il vuoto silenzio della immensità marina. Si immerse in quelle acque nere, fresche e profonde che purificavano l’anima e il corpo, e per qualche istante il mondo che lo circondava svanì. Iniziò a nuotare e il respiro si fece sempre più rapido. Intanto a Kertos, così era chiamato il villaggio di Sardo, gli ultimi fuochi erano stati spenti dai sacerdoti del tempio e tre uomini iniziavano il loro turno di sorveglianza. La ripida salita che conduceva allo strapiombo era illuminata dal bagliore della luna e da lassù un suono di corno avvisava che la notte era tranquilla. Quando i tre uomini arrivarono sulla torre che dominava sul villaggio, le sentinelle che avevano terminato il proprio turno si spogliarono dell’armatura e indossarono le bianche vesti di lino per rientrare a valle, a Kertos, consumare l’ultimo pasto della giornata e riposare con le loro mogli. Era dura la vita nel villaggio per chi doveva sorvegliare la comunità. Turni di una giornata si alternavano con un ciclo di riposo che durava altrettanto. Erano 200 le persone che vivevano a Kertos, ma solo 10, in periodo di pace, si occupavano della guardia: due al tempio e tre alla torre divisi in due turni. Sardo, intanto, era rientrato all’asciutto e a passo lento si avvicinava al villaggio percorrendo quel sentiero che fra lentischio e ginepro conduceva alla capanna delle capre, il luogo nel quale trascorreva la notte ormai da 10 lunghi anni. Era solo un bimbo quando suo padre Pireo, l’allevatore giunto dal mare, gli affidò gli animali insegnandogli a governarli. Non c’era riposo in quel lavoro, ma le bestie offrivano latte tutti i giorni e carne quando era necessario. Ogni luna nascente un capretto era sacrificato alle divinità. Il sangue era raccolto nella coppa e, con formule rituali, versato nella vasca. Gli organi interni venivano disposti sull’altare e consacrati. La testa, le zampe e la coda offerti in olocausto e la carne divisa per essere consumata dalla comunità. Altri 9 erano gli allevatori di Kertos, e quando la comunità si riuniva per il banchetto rituale le 10 bestie erano sufficienti a sfamare anche le donne, i bambini e i vecchi. Le parti migliori erano per le guardie del villaggio, per i 2 sacerdoti e per il capo, il pastore che guidava il popolo. Il conferimento degli animali per l’offerta era un giorno di gioia per Sardo. Gli era stato insegnato che la generosità e l’altruismo erano i presupposti per una vita felice. Quando sceglieva la capra sapeva bene che la più sana e bella del gregge sarebbe stata gradita al suo Dio, e prima di ucciderla tagliava una ciocca dal mantello e la metteva da parte per donarla al nipote e rinnovare un rito speciale, magico, lontano nei tempi. I padri della comunità raccontavano che un tempo, quando si viveva sotto le rocce vicine al fiume, i bambini dovevano preparare un piccolo giaciglio con la lana consacrata alla divinità, e quando riuscivano a completarlo nella larghezza di un braccio e la lunghezza di tre, erano pronti all’iniziazione. La tradizione imponeva che la promessa sposa era incaricata di confezionare un tessuto da imbottire con la lana preparata dallo sposo e quando i giovani avrebbero raggiunto l’obiettivo imposto dalla legge matrimoniale sarebbero iniziati i cerimoniali con la benedizione delle famiglie e la preparazione del materiale per costruire la casa. Tutti i giovani del villaggio, maschi e femmine, trascorrevano l’infanzia dividendo la giornata in tre fasi della stessa durata: il lavoro nei campi e con gli animali, la preparazione dei cibi e la loro consumazione, e il riposo. Solo nell’ultima fase potevano dedicarsi alla preparazione del dono nuziale. I migliori riuscivano nell’intento prima del compimento dei 10 anni, e solo allora potevano chiedere agli anziani della comunità quali sarebbero state le prove da superare nel rito di iniziazione.
Uomini e donne avrebbero preparato un terreno di 10 braccia per lato e all’interno avrebbero trasportato tutto il materiale che serviva per preparare la futura casa. Nei momenti di riposo i giovani avrebbero potuto tagliare i rami, accumulare il fango per le pareti e lavorare le pietre per la base della capanna. Le fibre vegetali per legare le fronde alla struttura sarebbero state fornite dalla comunità, già pronte in forti legacci preparati dalle donne già sposate e in attesa di figli. Il lavoro dei campi è duro per le mamme gravide e la comunità non consente che i nascituri siano a rischio di sopravvivenza nel ventre materno.
...domani la seconda parte di questo breve racconto che ho scritto oggi. Anche se non si tratta di letteratura scientifica, siete pregati di citare fonte e autore, chissà che un giorno mi decida a scrivere l'intera vita di questa comunità che vive nella mia fantasia. :)
Nell'immagine: il capotribù, tratto da Lilliu, 1966, sculture della Sardegna nuragica
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