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Mentre l’aereo decolla da Mataveri per portarmi lontano da Rapa Nui penso allo strano destino di quest’isola.
Ancora oggi l’Isola di Pasqua è la terra più isolata del mondo. La più vicina, 415 km a est, è l’isola Salas y Gómez, che è uno scoglio popolato solo dagli uccelli. Se volessimo trovare la più vicina terra abitata dovremmo fare un viaggio di 2,075 km fino all’isola di Pitcairn. Dove troveremmo, per altro, solo cinquanta persone, i discendenti di nove degli ammutinati della nave inglese Bounty, che nel 1790 vi trovarono rifugio assieme a sei uomini, undici donne e un bambino di Tahiti che, più o meno volontariamente, li avevano seguiti nella fuga. Nascostisi su quell’isola da tempo disabitata (alcuni secoli prima vi era stanziata una piccola comunità polinesiana, poi misteriosamente scomparsa nel nulla) trascorsero parecchi anni prima che la loro presenza fosse scoperta, portando, oltre ai contatti col resto del mondo anche il perdono della Corona inglese all’ultimo sopravvissuto degli ammutinati, John Adams, nel 1825.
Dal punto di vista degli isolani, tuttavia, l’Isola di Pasqua non era una terra isolata, ma Te Pito Te Henua (l’ombelico del mondo), perché da ogni parte si spingesse lo sguardo e l’esplorazione non c’era che il mare a circondarla. E questo era sicuro indizio che quello fosse il centro di tutto. Non lontano da Anakena c’è persino una grande pietra sferica, ad indicare con precisione dove si trova l’ombelico. Per inciso, poiché come molte pietre dell’isola contiene abbondanti quantità di ferro, essa provoca distorsioni del campo magnetico. Queste sono riscontrabili anche in alcuni altri punti dell’isola, specialmente sulla costa settentrionale, che ancora oggi è la zona più selvaggia e difficile da raggiungere, perché ci si arriva solo a piedi o a cavallo.
A pensarci gli abitanti dell’isola di Pasqua (fu chiamata così essendo stata scoperta dagli Olandesi la domenica di Pasqua del 1722) fecero collettivamente ciò che molti di noi fanno ogni giorno: sentirci il centro del mondo. E sentirci frustrati quando scopriamo che il mondo cammina tranquillamente per la sua strada anche senza di noi.
Col senno di poi probabilmente i Pasquensi avrebbero fatto volentieri a meno di essere “scoperti” dagli europei, perché questa sfortunata popolazione ebbe un’infinità di guai da questo contatto ravvicinato. Prima la sifilide e altre malattie diffuse dagli equipaggi che vi facevano scalo.
Poiché la tratta degli schiavi di pelle nera dall’Africa era stata vietata, nel 1862 gli schiavisti peruviani pensarono di procurarsi schiavi di pelle non nera in una terra non africana. Circa 1500 isolani, metà della popolazione, fu deportata nelle miniere di guano, dove per la fatica, le brutalità e le malattie trovò la morte. Quando i pochi sopravvissuti furono liberati importarono la tubercolosi sull’isola.
Nel 1864 un missionario di nome Eugène Eyraud sbarcò sull’isola. Per nove mesi gli abitanti lo molestarono e lo presero in giro in tutti i modi, finché non lo costrinsero ad andarsene. Tornò però l’anno seguente, con alcuni compagni, tra cui alcuni polinesiani convertiti e questa volta il tentativo ebbe successo. Eyraud divenne molto popolare ed influente. Così convinse gli abitanti a distruggere quanto rimaneva della cultura tradizionale. In particolare li indusse a bruciare le tavolette di legno, chiamate rongorongo, su cui erano incisi dei “caratteri geroglifici” che ormai nessuno era più in grado durante la prigionia. Morì nel 1868 di tubercolosi, nove giorni dopo aver battezzato gli ultimi indigeni.
I missionari avevano portato però senza volerlo, una nuova grave minaccia. Nel 1866 Gaspar Zumbohm e Théodule Escolan si unirono ad Eyraud nella missione di Hanga Roa. All’isola li trasportò un marinaio e avventuriero francese, Jean-Baptiste Dutrou-Bornier. Questo, vista l’isola, concepì un piano criminale. Messa insieme una certa somma di denaro, probabilmente barando al gioco d’azzardo e attraverso altri traffici poco onesti, sbarcò nuovamente sull’isola nel 1868.
Cominciò a comprare terre dagli indigeni, sposò una donna del luogo, mise insieme un piccolo esercito armato di fucili e persino di un cannone, con cui di fatto si assicurò il controllo di quasi tutta l’isola, bruciando le case di quanti gli si opponevano. Proclamatosi re, trasformò la sua proprietà in un grande ranch per l’allevamento delle pecore. Alla fine i missionari, incapaci di resistere alle continue angherie, decisero di evacuare l’isola con quasi tutti gli abitanti.
Pochi anni dopo Dutrou-Bornier, che aveva continuato a spadroneggiare sul centinaio di sopravvissuti che ancora rimaneva su quella terra sfortunata, fece una cosa che non avrebbe dovuto fare. Mise gli occhi, e probabilmente non solo quelli, su una ragazzina. Qualcuno non gradì la cosa, ne nacque una rissa e lui venne ucciso. Dovettero passare molti decenni, in ogni caso, prima che la situazione dei Pasquensi, passati nel frattempo sotto il governo del Cile, cominciasse a migliorare.
Non è Dutrou-Bornier, comunque, l’avventuriero su cui dovrò indagare. Continuate a seguire il mio “viaggio attorno all’ombelico”, perché stiamo andando verso l’India…
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