Ho imparato ad apprezzare il mare quand’ero già grande. Con questa parola – mare - non intendo le mattinate in spiaggia, fatte di indolenza e ustioni di primo grado sotto al sole. Mare rievoca in me impressioni di infinito e speranza e libertà e ricordi di viaggi col vento in faccia, di onde che si infrangono contro lo scafo e quel senso di avventura che solo gli spazi aperti sanno dare.
Mi ero avvicinata ai rudimenti della vela per pura curiosità, in una di quelle scuole estive fatte di levatacce e ragazzi abbronzati, durante un paio di settimane in cui la bellezza del mare mi aveva annientato. C’ero tornata per i due anni successivi. Ma, ad un certo punto - non ricordo più il momento preciso, come per ogni perdita di una cosa bella – la mia infatuazione finì e la vela fu sostituita da vacanze chiassose e fatte di attese mischiate col niente.
Poi, una sera, stavo seduta nel solito pub dietro l’università e lo Skipper ci aveva raccontato dei suoi piani per l’estate. Partire con lui e altri sconosciuti mi era sembrata la cosa migliore che potessi fare.
Infine, l’estate era arrivata. Ci aveva messo molto. Giugno era stato buio, con Gabriele in procinto di partire. Luglio freddo ma non soltanto per me. Agosto era esploso con i telegiornali che ci raccomandavano fantasiosamente di bere tanto e le strade bruciate di una Milano abbandonata e arida.
Finalmente, una sera, avevo spento il blackberry e impostato l’out of office sul server di posta. Avevo percorso in moto i soliti dieci minuti dissestati fino a casa. Avevo smembrato il casco e messo le imbottiture in lavatrice. Svuotato il frigo dei suoi cadaveri abituali e buttato la spazzatura. Avevo scavato nel fondo dell’armadio alla ricerca di calzoncini, magliette colorate e costumi da bagno. Ero andata a dormire con la sacca azzurra che mi fissava da un angolo della mia camera. Due giorni dopo, salpavamo.
Mi ero offerta di occuparmi della cucina. Cercavo di avere a che fare il meno possibile con lo Skipper. Con Gabriele stai facendo una gran cazzata; è solo un’enorme perdita di tempo e tu a trent’anni di tempo non ne hai più molto. Queste le sue parole in un pomeriggio di due mesi addietro. Eravamo sotto un portico, grigliata nel bresciano, uno di quei sabato sfigati, fatti di acquazzoni intermittenti. Io ho detto solo Vaffanculo, Marco. Ho salutato la padrona di casa e poi ho guidato per due ore e mezzo, stretta tra i filari asfittici della Franciacorta, guardando occasionalmente nello specchietto retrovisore i nuvoloni neri troppo lenti per raggiungermi. Ero andata dritta a casa di Gabriele, senza preavviso. Lo avevo baciato non appena aveva aperto la porta, senza dargli il tempo di chiedermi perché fossi lì e non dove avrei dovuto essere.
Due mesi dopo, Gabriele non c’era più. E io dividevo un quattordici metri con un gruppo di sconosciuti e un presunto amico che morivo dalla voglia di prendere a pugni. Cucinavo per tutti, ogni tanto mi aiutava Walter, un ragazzo silenzioso con cui dividevo la cabina e che non mi faceva domande e a cui neanche io chiedevo niente. Cercavo di partecipare il meno possibile alle operazioni di navigazione, e mi piaceva stare rannicchiata in un angolo del ponte pensando a Gabriele e a cosa sarebbe accaduto dopo. E constatavo che tutta quella contemplazione di spazi infiniti intorno a me, il contatto con la salsedine e il vento e le condizioni precarie della vita a bordo, non facevano altro che immalinconirmi e immobilizzarmi. E non facevo alcun passo in avanti, involvevo nel mio malessere e, per la prima volta, non vedevo alcun barlume di speranza e mi sentivo incatenata ai miei sentimenti, soggiogata da una vita del cazzo che mi aveva privato dell’unica cosa pura e luminosa in cui ero riuscita ad imbattermi dopo tanti anni. E se provavo a guardare oltre lo stato delle cose, non riuscivo a vedere davvero nulla.
A volte, la notte, nel buio della cabina, ascoltavo il respiro regolare di Walter e mi chiedevo come facesse ad essere così distaccato da tutto, a non provare curiosità verso nessun altro. Lui se ne stava lì sul ponte e aiutava lo Skipper e si godeva il mare e il vento, in silenzio, e, nei momenti che passavamo tutti insieme, a terra o in rada o durante la navigazione, lui restava per lo più muto, ridendo ogni tanto a qualche battuta o rispondendo laconicamente a una domanda diretta. Invidiavo quel suo essere felice restando a un passo dalle cose. Io stavo male in ogni caso: sia che fossi a distanza di sicurezza o avvinghiata alle cose, alle persone o alle emozioni, finivo sempre per soffrire come un cane.
Ricordo che, tornati in porto, tutti si abbracciavano e si salutavano e si scambiavano numeri di telefono. Per quel che mi riguardava, rispetto all’andata, era solo imbrunito il colore della mia pelle e, se possibile, mi si era scurito ancora di più l’animo. Ho baciato sulle guance lo Skipper e gli ho detto un grazie poco convinto. Ho abbracciato Walter e gli ho sussurrato in un orecchio Ti invidio, sai. Un giorno ne parleremo. Altri baci e abbracci a tutti gli altri, tanto per sentirmi normale, una volta tanto.
Con la sacca su una spalla e una voglia folle di una doccia, ho percorso a ritroso la strada verso la navetta. Intorno a me, c’erano tutte quelle cazzo di persone allegre che avevano un amore e una famiglia e tante speranze per il futuro, anche se poi non le avrebbero realizzate mai.