Livia conosceva molto bene Taormina. Avrebbe potuto descriverne a occhi chiusi ogni strada, piazza, fontana, chiesa, palazzo, portale. Avrebbe potuto disegnarne la piantina e soprattutto riprodurre, elemento per elemento, lo splendido Teatro greco-romano dalla “scena” purtroppo spaccata in due parti, dietro la quale s’innalza nel cielo azzurro la vetta innevata o fumante dell’Etna, campeggiando come un maestoso fondale per la rappresentazione delle tragedie greche: titanici i personaggi, titanico lo scenario.
Aveva studiato nei libri di archeologia o di turismo culturale la storia e l’aspetto della piccola città distesa su una terrazza dominata dal Monte Tauro (da cui l’antico nome greco Tauromenion) e prospiciente sullo Jonio dalle acque limpidissime color dell’indaco, rese ancor più luminose dal sole che splende dal suo sorgere fino al primo pomeriggio, poiché Taormina è adagiata sul versante orientale del monte. Ma, anche dopo che il sole si è nascosto dietro l’altura, l’acqua marina, sebbene più cupa, non perde il suo fascino di gemma.
E quel giorno la rivedeva con immutata meraviglia. Era poi entrata nelle bottegucce di Corso Umberto ad acquistare cartoline che non spediva, ma serbava di volta in volta insieme a piccoli oggetti di pietra lavica, al profumo di zagara in minuscole boccette e…al carrettino siciliano in miniatura. Ormai ne aveva collezionata una ricca serie, non è chiaro se perché le piacesse l’atto di acquistarne uno, scegliendo con cura quello che le sembrava perfetto, con il cavallino bianco, altre volte nero, oppure perché avesse dimenticato che la fila di carrettini, su un ripiano della libreria, era ormai lunghissima.
Poteva dunque vagare per Taormina senza alcun rischio di smarrirsi anche nei vicoli medioevali o su e giù per le piccole scalinate. Non se l’era cavata egregiamente persino a Palermo, da sola nella Vuccirìa, o ad Atene, per le stradine della Plaka?
Ma quel giorno la sua mente era un poco turbata e forse ottenebrata dagli oscuri pensieri che un tempo la tormentavano senza tregua, mentre da almeno un anno si erano sopiti nel suo subconscio grazie a una vita più serena, confortata anche da qualche chiacchierata con lo psicanalista. Se n’era accorta già al mattino, appena si era svegliata con quel mal di testa che ben conosceva: una strettissima morsa alle tempie. «Sarà colpa del vento!» disse fra sé per sminuire la tensione; infatti, nella città in cui viveva, l’arrivo di un forte vento si preannunciava in lei con l’insonnia seguita da un grave mal di testa per tutta la giornata. Ma in Sicilia no, non era mai successo, poiché il vento nella splendida isola spira sempre benevolo in ogni luogo, ora come lieve brezza che scompiglia i capelli, ora come un succedersi di folate che increspano la superficie del mare o fanno leggermente piegare le altissime palme delle “ville”, cioè dei giardini.
Qualcosa dunque non andava bene in lei, ma non aveva voluto rinunciare a Taormina, la cui visita era già stata fissata per quel giorno nel lungo viaggio che stava compiendo con suo marito in quella che denominava “isola del sole”, “isola dei miti”.
Avevano dunque passeggiato a lungo insieme per la vetusta e illustre città greca/romana/medioevale/rinascimentale/barocca, soffermandosi davanti agli armoniosi palazzi signorili, oppure ammirando le facciate e i silenziosi interni delle splendide chiese che testimoniano, nella commistione degli stili, la complessa storia della città attraverso i secoli, anzi, i millenni e denotano, insieme con i palazzi, la presenza in ogni epoca di Signori amanti dell’arte.
Avevano contemplato, quasi senza avere la forza di staccarsene, il Teatro e la magnifica vista sul mare, fin quasi alla Calabria, poiché il cielo era limpido grazie al vento che ne aveva dissolta la foschìa. Il mare era color dell’indaco e l’Isola Bella splendeva come una gemma posata su un drappo increspato e luminoso.
Ma ormai era tempo di ripartire, tornando all’automobile lasciata, come le altre volte, in Via Pirandello¹, adiacente alla Porta Messina. L’avevano quasi raggiunta quando Livia si ricordò del carrettino siciliano: aveva, infatti, dimenticato di cercarlo in qualche altro negozietto poiché nel grande emporio, in cui avevano acquistato il profumo, erano ormai esauriti i carrettini in miniatura. Lasciò frettolosamente il marito promettendo di ritornare il più presto possibile; egli rispose che intanto si sarebbe avviato verso l’auto e l’avrebbe aspettata lì, senza spostarsi da Via Pirandello.
Livia camminò accanto al bel portale senza fermarsi ad ammirarlo, percorse velocemente quasi la metà di Corso Umberto e si ritenne fortunata: in una botteguccia seminascosta vide proprio in vetrina i suoi amati carrettini. Ne comprò uno con il cavallino nero e uscì in fretta per raggiungere il marito.
Quando passò sotto l’arco del portale sentì una scossa e poi un lungo brivido che la percorse tutta. Eppure faceva ancora molto caldo, benché il sole incominciasse a declinare all’orizzonte. Non si ricordò bene dove avessero lasciata l’automobile e dove il marito l’attendesse. Non vedeva parcheggi da quelle parti. Non vedeva il marito, che forse era seduto al volante. Ma dov’era l’auto? Non ne vedeva nessuna accanto a Porta Messina. Si sentiva la testa confusa come se si fosse svegliata da un sonno pesante, anzi, da una notte di febbre alta e d’incubi.
Non ricordava più nulla! Nemmeno il colore e la forma dell’auto presa a noleggio all’aeroporto e usata da almeno una settimana. Soprattutto non ricordava dove l’avessero lasciata molte ora prima.
In quel momento non fu più sicura neppure del suo nome, della sua identità. Sapeva solo che stava cercando un uomo e un’automobile, ma ignorava dove cercarli. Provò un profondo senso di smarrimento, di vero e proprio terrore, tanto che tremava e sudava stringendo in mano il carrettino siciliano chiuso nel cellofan.
Si fece coraggio e chiese a un passante dove fosse il parcheggio più vicino. Le fu risposto che quasi tutti i turisti lasciavano l’auto a Mazzarò, presso il mare, e salivano a Taormina in funivia. Ma Livia non era salita in funivia; almeno di questo era certa perché ne aveva paura, dopo una brutta esperienza in montagna e la decisione di non usare mai più quel mezzo, anche se per un breve tragitto. Chiese a un altro passante dove fosse il parcheggio più frequentato, escluso quello di Mazzarò. Si sentì dire che si trovava più in basso, sul pianoro a metà della strada a tornanti che conduce a Taormina. Doveva dunque scendere per almeno un chilometro. Che strano! Non ricordava di aver camminato così a lungo in salita dopo aver parcheggiata l’auto, per di più sotto il sole cocente della tarda mattinata di luglio.
Ma il terrore che ormai l’attanagliava la spinse a scendere quasi di corsa per quella strada intasata dalle auto che salivano o scendevano sfiorandosi. Più che aria respirava gas e si sentiva soffocare, presa ormai dal panico e sconvolta dalla mancanza di orientamento. Era già passata quasi un’ora da quando aveva lasciato il marito dicendo che avrebbe fatto molto in fretta.
Ad un tratto le auto si fermarono tutte ai margini della strada e Livia ne approfittò per camminare più speditamente in discesa, verso il grande parcheggio sul pianoro. Ma la sua lena fu interrotta da un’amara scoperta: da una strada laterale scendeva un carro funebre coperto di rose bianche, seguito da un lungo corteo di auto scure anch’esse ornate di corone floreali. Quando il carro funebre imboccò la strada in salita verso Taormina, Livia riuscì a leggere la scritta d’oro sul nastro che adornava la corona di giunchiglie appesa dietro l’auto: «Giorgio e Michela, marito e figlia dolenti».
Si sentì mancare: erano i nomi di suo marito e di sua figlia! Allora era il suo funerale. Era lei la donna dentro quella bara. Era morta! Era dunque un’ombra che vagava tra i vivi, cercando qualcuno e qualcosa che appartenevano a un mondo da cui era ormai esclusa. Però sentì nella sua mano il carrettino che quasi le pungeva il palmo con le zampette sottili del cavallino. Sentì scorrere delle gocce lungo le gote. Non poteva essere pioggia poiché il cielo era ancora limpido e azzurro. Allora erano lacrime! Quindi era viva perché le ombre sono inconsistenti, non hanno sangue, carne, ossa, occhi, palpebre, lacrime! Il funerale dunque non era suo, ma di una donna che per caso aveva un marito e una figlia con gli stessi nomi dei suoi.
Però il funerale fu causa di una nuova apprensione, quasi di un funesto presagio. Non sapeva più che cosa fare, a chi rivolgersi, dove andare. Era una situazione veramente pirandelliana, soprattutto per il caso singolare dell’omonimia nel funerale. All’improvviso le venne quasi un’illuminazione: Pirandello! Ma perché proprio quel nome le dava un senso di sicurezza, quasi di salvezza? «Pirandello, Pirandello, Pirandello!» ripeteva tra sé e sé, forse ad alta voce.
«Ma signora, se cerca Via Pirandello deve risalire fino a Porta Messina, non scendere! Però non deve entrare dal portale: la troverà fuori, subito a sinistra.»
Allora tutto le fu chiaro: non si trattava di un vero e proprio parcheggio, ma di una lunga strada in cui, con un po’ di fortuna, si poteva trovare un posto libero per l’auto ed essi, quel mattino, dovevano proprio essere stati fortunati. Certamente l’auto azzurrina (ora lo ricordava bene) e il marito, chissà quanto spaventato per la sua lunga assenza, dovevano essere proprio lì, in Via Pirandello.
Risalì quasi di corsa la strada a tornanti superando anche il corteo funebre che procedeva lentamente. Si fece il segno della Croce ma non guardò i nomi scritti sul nastro della corona di giunchiglie: ormai non le interessava più sapere se fosse un singolare caso di omonimia o se lei, in preda al panico, avesse letto con la fantasia i nomi dei suoi cari, deducendone che era morta e che stava immobile in quella bara. Era certamente viva se correva su per quella strada in salita, dove, proprio alla fine, vide suo marito con un viso stralunato, terrorizzato, quasi tra le braccia di un Carabiniere che cercava di calmarlo e rassicurarlo, promettendo di incominciare subito la ricerca della moglie sparita nel nulla.
Livia si gettò fra le braccia del marito e disse tra le lacrime: «Non ricordavo più nulla. Non sapevo dov’era l’automobile. Sono corsa su e giù verso i parcheggi. C’era anche un funerale!».
«Eppure ti avevo detto che ti avrei aspettata in Via Pirandello! Non mi sarei mosso di lì mentre andavi a comprare il carrettino. Eravamo d’accordo così!»
Si accorse che stringeva convulsamente in mano qualcosa. Aprì lentamente le dita e vide il suo carrettino siciliano con il cavallino nero. Per fortuna era ancora intatto.
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1 – La vicenda narrata è avvenuta prima che fosse costruito il grandissimo parcheggio a più piani ai piedi del colle, sulla cui vetta si arriva con l’ascensore presso Porta Catania, opposta a Porta Messina.
da “Dedalus” puntoacapoeditrice 2011
Giorgina Brusca Gernetti, nata a Piacenza, vive a Gallarate (Va). Ha insegnato Italiano e latino nel Liceo classico della sua città. Ha pubblicato le sillogi poetiche “Asfodeli” (1998); “La luna e la memoria” (2000); ” “Ombra della sera” (2002) e “Parole d’ombraluce” (2006).