Debiti con le banche per 900 milioni di euro, un massiccio piano tagli, 600 per la sola Italia, via dieci periodici coi dieci direttori (si salva solo Maria Latella, l’Anna La Rosa della carta patinata: la patria glielo deve per il record di interviste riuscitissime nell’intento di nascondere anziché rivelare, compiacere anziché informare). Ma quello che brucia di più ai giornalisti del Corriere della Sera è lo sfratto da via Solferino. La decisione di abbandonare la sede storica del quotidiano, ritornata all’ordine del giorno dopo anni di rinvii, è un aferita insanabile che sta minando i rapporti tra la redazione e il direttore Ferruccio de Bortoli, che si era impegnato personalmente a contrastare a decisione. Tanto che – racconta il Fatto – non si escludono gesti estremi, dopo l’assemblea di stasera.
È arduo immaginare cosa si intenda per gesti estremi: spettinare il ciuffo proverbiale di De Bortoli, tirare la farina – è martedì grasso – imbrattando il doppiopetto di Mieli, fare un titolo d’apertura critico del governo, dirottare Merlo e Rizzo alla redazione di Sgurgula Marsicana.
Ma invece per via di quel rimpianto – per gesti dimostrativi un po’ scapigliati e per ribellioni scapestrate, narrate solo in supplemento cultura – che a volte afferra, magari in età avanzata, i più composti imitatori dei costumi anglosassoni, è probabile che i giornalisti del corrierone occupino la loro sede storica.
I posti sono importanti, si intrecciano con la storia e gli uomini che la popolano e la fanno, sono simbolici, riconoscibili, entrano nell’immaginario e nella vita quotidiana come presenze domestiche e familiari.
Nell’autobiografia della nazione ci sono gallerie, caffè, trattorie, librerie che hanno nutrito incontri prodigiosi, alimentato idee e movimenti, rafforzato moti e pensieri. Come se chi ci passeggiava avanti e indietro irrequieto, chi stava seduto ore senza consumare nulla a discutere o solo ascoltare, avesse respirato la potenza del ragionare insieme, del guardarsi negli occhi, prendersi sottobraccio o anche a schiaffi, ma contagiandosi così di impressioni, sentimenti, passioni.
Via Solferino, il posto dove si faceva del Corriere, parla a Milano e di Milano, non quella da bere magari, che da là è cominciato il degrado, lo sconfinamento nell’esibizionismo e nella volgarità dei commendatori delle commediacce con Boldi e dei cine panettoni, lo sprofondare nel pacchiano sogno berlusconiano e nel miserabile avventurismo leghista, la corruzione e il disfacimento della politica. No, parlo della Milano e della Via Solferino che incuteva rispetto anche in chi era la sentiva ostile o estranea, riconosciuta anche da chi a Milano era stato un terun tollerato, familiare anche a chi faceva la controinformazione, domestica anche per chi il Corriere lo occhieggiava in tram per guardare i titoli o lo sfogliava in latteria la mattina presto, col freddo della nebbia addosso, onorevolmente “nemica” per chi si sentiva a Milano un apocalittico rabbioso e visionario come Bianciardi, che a lui non lo cacciavano era lui che se ne andava.
E a chi non succedeva di passare per Via Solferino la notte e spiare alzandosi in punta di piedi per sentire le voci di dentro, aspettare di vedere uscire sui carrelli i pacchi di giornali legati con lo spago. Quei giornali con quei titoloni e quelle foto nere espressioniste, pesanti come macigni in dicembre o in agosto per parlavano di morti, quei giornali su cui adesso passiamo le dita sfiorandoli, immateriali e sfuggenti come la realtà amara che abbiamo intorno.
Hanno ragione di occuparla, se lo faranno, Via Solferino. Lasciare certi posto porta male. Pensate a Botteghe Oscure, pensate se quella defezione non ha rappresentato simbolicamente la rinuncia a una storia di rappresentanza degli interessi e dei bisogni degli sfruttati, pensate a Via dei Taurini, se andando via da là non se n’è andata anche la vera Unità, il giornale comunista fondato da Antonio Gramsci. Non c’è nulla di così “politico” nello sfratto da Via Solferino. Ma c’è molto di incivile, è la rimozione del passato di una città viva, laboriosa, quando il lavoro c’era, operaia, quando gli operai c’erano e non erano delle comparse sbiadite da emarginare come attrezzi inutili, quando c’erano gli intellettuali liberi, quando c’era ancora chi pensava che il mondo si cambia con le parole e le idee e i colori e le pietre e la musica che ci canta dentro.