Magazine Diario personale

Viaggio a South Kensington

Da Lundici @lundici_it

Conta che quella notte credo ancora nell’amore. Conta che a quel tempo sono ancora convinto che per me ci sarà una salvezza e che questa sarà nella donna che amo. Conta che quella notte credo che ogni cosa che faccio, ogni sacrificio, ogni umiliazione saranno ripagati.

Due settimane per preparare tutto e poi sarei partito alla volta di Londra, il mio primo soggiorno in terra straniera. Avevo già vissuto da solo, a Roma e dintorni per lo più, ma adesso la cosa si presentava seria e non avrei avuto, all‘occorrenza della mia immaturità, una distanza risibile che mi congiungeva con la casa.

Non avevo fatto il militare e quel viaggio a Londra me lo immaginavo così, come una specie di CAR esistenziale.

Le facce dei miei genitori non denunciarono niente di più che un dispiacere naturale, e poi avevo trovato un alibi standard alla domanda che cosa vai a fare: “Cioè…vado ad imparare l’inglese”.

La lingua inglese sarebbe stata la mia ragione di sopravvivenza, e se anche le cose fossero andate per il verso sbagliato, e se anche il lavoro non avesse trovato la via per ingranare, io potevo sempre dirmi: “Bé, sto qui per imparare l’inglese”.

Presi fiato in quei giorni, ogni minuto sembrava dovesse essere l’ultimo di una vita senza particolari tensioni, e le ore scorrevano così lente che alla fine di quei quattordici giorni che mi ero dato per partire e preparare tutto iniziavo a non vedere l’ora. Ogni sera di quei quattordici giorni di settembre provavo un’eccitazione non commisurata all’impresa.

Molte delle persone che conoscevo avevano soggiornato in Inghilterra e per fortuna io non ero mai stato in quelle terribili vacanze studio estive che non servono ad un bel nulla, se non forse per la socialità della droga e del sesso. Impratichirsi nelle prime esperienze

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di cartine avvoltolate e sostanze inalanti, oppure i primi, arrapati da far male, contatti con tetragone vagine, e falli di pelle rossa ancora da svezzare oppure, più realisticamente, grandi masturbazioni collettive di quattordicenni seduti in circolo, alla maniera di una tribù indiana gareggiando con il gingillo a portata di palmo. E poi il fluido del più esperto ad imbrattare l’asciugamano che la madre aveva piegato accuratamente nella valigia.

E già immaginavo, il vento e la pioggia di Londra, anni e anni dopo, un inizio difficile, dal nulla, alla fine però esaltante, a ricordare la mia vita passata nella micro-città e lei, il mio grande amore della vita, rimpicciolito, a poco a poco, sempre in maniera decrescente, come una fiammella nel buio di una piccola stanza che diventa minuti dopo minuti fioco lumino, soave ed inquietante, ma superato, per sempre.

Lo dissi così alle persone che conoscevo. Eravamo seduti al tavolo di un pub, il nostro solito pub; avrei dovuto rendere partecipe della mia decisione chi mi conosceva e preferivo farlo a voce. Un po’ perché sono un tipo teatrale e mi piace vedere la bocca sorpresa della gente, e un po’ perché telefonare a tutti gli individui che conoscevo e comunicare loro la scelta sarebbe stato un autentico strazio. Lo feci.

“Vado a Londra, tra due settimane lo faccio.”

Non sto a dirti quello che successe. Per lo più molti furono stupiti, alcuni dispiaciuti e i numerosi sguardi evidenziarono una focosa invidia. In sostanza ero l’unico che partiva sacco in spalla verso una nuova avventura, e le persone, la maggior parte di quelle conosco io, naturalmente non le fanno queste cose, al massimo se si trasferiscono all’estero lo fanno perché li aspetta qualcosa di sicuro e di accertato. Mi sentivo un emigrante dei primi del Novecento che prova a lasciarsi indietro tutta la rabbia concentrata verso il proprio Paese d’origine, che si cimenta con il suo nuovo stato d’animo, che si mette di buona volontà a valicare distanze per raggiungere la sua realizzazione personale e sociale. Mi sentivo ma non lo ero, era solo che non avevo trovato niente e, dopo almeno due anni di sperticati fallimenti e sensi di ansia e panico, uno sceglie di cambiare aria. Cambiare aria è ciò che mi ci voleva e tutti, almeno quelli che  tenevano sinceramente a me, lo capivano senza bisogno di ulteriori spiegazioni.

Lasciai a briglia sciolta le mie usuali timidezze, e quella sera, di quel settembre lontano, mi resi conto, ma davvero me ne resi conto, che il coraggio di una scelta vale più del contenuto della scelta stessa. È così, almeno per me.

La mattina della partenza mi presentai pieno di me stesso all’aeroporto. Ciampino si ergeva piccolo come una baracca con qualche rombo tonante in lontananza e le serene facce sorridenti dei viaggiatori di lungo corso. Mi sedetti per un breve attimo su una sedia del bar, salutai mio padre che mi aveva accompagnato e guardai e ascoltai quanto più potevo. Brividi di ansia mi si ripercuotevano per i nervi dal momento che ero poco pratico di voli. Ritardi, mancanza di direzione giusta, spossamento per rinculare nel gate giusto, lavoro alla testa per sentirmi più sicuro verso un’esperienza che mi auguravo non essere così traumatizzante.

Tieni presente che i primi tempi a Londra furono esaltanti. Conobbi una certa quantità di persone, da tutta Italia, da tutta Europa, da tutto il mondo.

Trascorrevo le mie notti in un ostello che era il contrario della pulizia. Pensa a qualcosa di pulito e poi pensa al suo opposto. Ecco, quello era il mio ostello. Un palazzotto cadente su sei piani a Lambeth North, a due passi dalla stazione di Waterloo e non molto

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lontano da London Bridge. Io condividevo la mia stanza con un ragazzo franco-nigeriano che aveva solo un piccolo difetto: puzzava di spazzatura. Ma quello era il meno se pensavi che aveva un figlio a Lione e che era venuto in Inghilterra per sbarcare il lunario e invece passava tutto il giorno e la notte a bighellonare per Southbank con un gruppo di franco-algerini di seconda generazione.

Come ti ho detto, quei tempi furono i più belli perché tutto era nuovo e quando tornavo all’ostello, stanco dopo una giornata intera a cercare lavoro e a scervellarmi con quella lingua che non conoscevo, trovavo i miei amici di allora, per lo più ragazzi e ragazze italiani venuti lì perché da noi non si trovava niente.

L’ostello era retto da un omosessuale brasiliano, con velleità di diventare il nuovo Glauber Rocha, e alcuni mezzi fuoriusciti fascisti, gente di destra, romani che avevano fatto qualche peccatuccio all’ombra del Cupolone e che erano venuti a rifugiarsi lì a Londra per ovviare alla giustizia.

Non ti voglio tediare però con il racconto di quando e come mi sono ambientato, della prima impressione di polvere e moquette di gatto che ebbi appena messo piede nella stanza dell’ostello, della puzza di George, il franco-nigeriano, che fu costretto a lavarsi dopo una mia sfuriata, del treno che partiva da Waterloo e passava vicino a Lambeth accanto al negozio di Boots che la prima notte mi fece piangere – dove cazzo ero capitato? –, del sentimento di nostalgia di casa, venuto meno dopo un paio di settimane, di quella ragazza francese che rimane ad ora la più incantevole ragazza con cui sia mai stato, dei miei compari di scoperte londinesi, un abruzzese e un pugliese, con cui setacciammo in lungo e in largo la città, le scuole d’inglese frequentate solo per rimorchiare, non mi soffermerò neanche sulla devastante quantità di MDMA che non assunsi al cospetto dei miei amici che ne prendevano copiosamente sotto forma di piccole pilloline, non lo farò perché ho a cuore la tua possibile noia.

Allora ti dico che trovai lavoro nel classico ristorante italiano, come lavapiatti.

Conta che quel giorno ero stanco, avevo lavorato dodici ore in cucina a lavare piatti che puzzavano di carne e salse e dopo poco, quando li lavi, ti accorgi che anche i tuoi polpastrelli, ormai raggrinziti dall’acqua, hanno quel sapore di cibo digerito e nella bocca ti senti un po’ di aroma ferrosa dovuta alla vicinanza con i fumi della cucina, pentole bruciacchiate e robe simili.

Accanto avevo il cuoco e il pizzaiolo, un bresciano e un non mi ricordo dove ma quanto: un bestione di due metri con la brillantina che gli sgocciolava dai capelli e un pizzo così folto che sembrava dipinto sul mento.

Al piano di sopra due cameriere, una spagnola e una polacca, e un barista italiano, un napoletano con cui legai fin da subito: il bravo ragazzo per antonomasia.

Sarà stato che avevo un certo ascendente sulla polacca ma credo che il cuoco godesse a farmi sbrigare i compiti più faticosi. Pensa che il primo giorno che entrai in quella fogna fui accolto da un delizioso signore musulmano che si alternava con me a lavare i piatti e che non mangiava nulla per via del Ramadam e poi c’era il cuoco, il vero padrone, più padrone del manager, che aveva trent’anni e già si sentiva arrivato, mi comandava, mi prendeva in giro, ma quando iniziai a rispondergli aveva sviluppato una sorta di rispetto verbale pur non rinunciando ad infliggermi punizioni come buttare la spazzatura alle tre di notte, dopo che la giornata era finita. E sempre tre sacchi da almeno un quintale l’uno.

Voleva portarsi a letto la polacca, una ragazza di ventiquattro anni che invece diresse le sue attenzioni su di me.

“Devi metterti in fila” – mi disse il primo giorno che entrai a far parte della squadra di lavapiatti di quel ristorante.

Soltanto che in fila ci si mise lui perché la polacca scelse me.

Quando lavoravo lì, ero vestito con quei tipici grembiuli bianchi con il collo a V che si vedono nei film e devo dirti che la polacca mi cominciò a guardare in diverso modo quando lo indossai la prima volta. Le si accesero gli occhi quando mi vide, disse che mi stava benissimo.

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Quella notte però fu diversa dalle altre. Non la solita bevuta dopo una giornata di lavoro, non i soliti sguardi con la polacca che ogni tanto si traducevano in un invito a passare la notte da lei, neanche il solito gioco con le freccette con cui mi giocavo, sfidando il manager del locale, qualche misero pound.

Quella notte fu il viaggio nel viaggio.

Lavai l’ultimo piatto della serata, e subito arrivò il ruggito ridicolo del cuoco che mi disse di portare tre belle buste di cadaveri culinari nei cassonetti della spazzatura. Quella notte lo mandai a quel paese, ero arrabbiato, mi aveva fatto scrostare tutto il forno e le grate incatramate ed avevo rischiato di cadere e spaccarmi il collo. Non lo meritavo.

Strinsi i denti e presi le buste, mentre lui e il piazzaiolo tiravano su la solita striscia di coca del dopo lavoro. Prima di andare via, il cuoco mi lanciò il cibo della serata che era compreso nel mio stipendio: una bella parmigiana di un certo spessore dentro un contenitore in plastica. Lo afferrai e lo portai con me.

Tornato dai cassonetti, presi una birra ghiacciata al bancone del bar del ristorante dal mio amico napoletano e uscii fuori con lui per tornare a casa, lasciando il locale dietro di me mentre il manager e la cameriera spagnola litigavano in quanto la ragazza chiedeva di essere pagata e lui le rispondeva: “Mañana, mañana”.

Erano le tre e mi avviavo a prendere l’autobus, salutai l’amico napoletano, e mi diressi verso la metro di South Kensington da dove partivano anche tutti gli altri mezzi di trasporto.

Cominciò a piovere, era novembre. Non faceva freddo, si stava bene e mentre aspettavo mi dicevo che quella era la vita di strada che avevo sempre sognato.

Cominciò a prudermi lo stomaco e intanto l’autobus non passava, era dato a trenta minuti e per non dover arrivare a casa affamato decisi di mangiare la parmigiana che il cuoco mi aveva dato. L’avevo riposta nella giacca del giubbotto ed era ben fasciata nel contenitore di plastica in modo tale da non uscire fuori.

Non avevo coltelli o forchette, erano le tre di notte e avevo fame. Aprii la scatola e mangiai ingollandomi il tutto, sapevo di fare schifo, ma la fame era tanta dopo dodici di ore di lavoro.

Dopo aver deglutito mi pulii il mento con il polso e un po’ mi facevo pena e un po’ mi sentivo forte.

Passarono altri dieci minuti e un forte ribollire alle viscere prese il sopravvento prima sul mio stomaco e poi sul mio cervello. Era arrivato il momento di andare al bagno. Quella besciamella filante unita alla birra ghiacciata dovevano aver fatto il loro effetto. La stanchezza poi si faceva sentire e la mia fisiologia corporale non aveva retto. Mancavano dieci minuti circa al passaggio dell’autobus che mi avrebbe portato a Waterloo e non sapevo cosa fare.

Cominciai a sudare freddo, a sentire il peso del fiume che avevo dentro – ma non è che c’aveva messo qualcosa quel figlio di puttana di cuoco? Non lo so e non lo avrei mai saputo.

Lo stimolo si placò e mi convinsi che avrei potuto serenamente aspettare, prendere l’autobus e andare nel cesso fetido del mio ostello a Lambeth North.

La pioggia cominciò a battere e poi si placò anch’essa, la notte era stupenda, silenziosa, non c’era un’anima, solo un cinese con la capigliatura alla Johnny Depp che aspettava l’autobus insieme a me.

South Kensington è un posto tranquillo e l’unica cosa che può capitarti è rimanere di notte fermo ad aspettare l’autobus con un bisogno impellente da non poter espletare in bagno.

La tregua durò poco, il pulsare nelle mie viscere divenne di nuovo testardo, la fronte s’imperlò di sudore freddo e caldo. Non potevo non pensare a nulla che fosse: “Adesso che cosa mi invento?”

In mezzo alla strada, in un centro urbano come South Kensingotn, con i lampioni ovunque, case, condomini, insomma il posto meno

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privato che potesse esserci sulla faccia della Terra. Non è che esistono i sentieri di campagna a South Kensongton, è tutta gentrificazione, una cosa che non si abbina a un uomo che deve andare al bagno.

La metro, l’unica salvezza possibile, era chiusa, e allora dovetti decidere. Mancavano dieci minuti e provai ad alzarmi, camminavo nervosamente, che fare? Perdere l’autobus? Farmela sotto, sperando che i passeggeri dell’autobus non mi cacciassero come un lebbroso?

Intanto non riuscivo a trovare una posizione, mi alzavo, mi sedevo, sudavo, stringevo le mani alle tempie. Ripensavo alla giornata per distrarmi ma quel mostro doveva uscire da me.

Due minuti al passaggio dell’autobus, decisi in fretta e mi allontanai correndo via dalla fermata mentre il cinese continuava imperterrito a stare dritto con le sue cuffie e a leggere un libro che aveva dei segni matematici.

Avevo deciso: l’avrei fatta per strada, ma dove?

Provai a togliermi i pantaloni, ma in lontananza vidi due signore con l’ombrello nero che venivano verso di me. Intanto la pioggia cadeva, fitta ma dolce. La mia fronte confondeva l’acqua e il sudore. Cominciai a a correre, e poi mi bloccai perché qualcosa dentro mi diceva che era arrivato il momento. Mi ritrovai in una strada illuminata, sentivo le voci di qualche festa interna provenire fin giù sulla strada. Ero tra due ali di palazzi, in una strada stretta. Non m’importava non potevo più farcela, mi abbassai i pantaloni e lo feci.

Non sto a raccontarti di quanto durò, tantissimo, un flutto melmoso potente che inondò tutto il marciapiede con la paura che passasse qualche guardia o un residente. Molto peggio di quando imbrattai, qualche anno prima, un bagno di un locale a Greenwich Village a New York che divenne per sempre, nei miei racconti goliardici, il mio “Jackson Pollock di merda”. Stavolta ero sulla strada, nudo, senza nessun tipo di difesa.

Fortunatamente non passò nessuno ma mentre ero lì piangevo e ridevo e soprattutto piangevo e dicevo di non meritarmelo. Ero disperato e alternavo risolini isterici sulla mia faccia che era diventata una maschera impregnata di acqua, sudore, lacrime e chissà cos’altro. Dopo aver fatto il lavapiatti, potevo inserire nel curriculum l’esperienza del cacasotto.

Mi pulii alla meno peggio con due fazzoletti che non furono sufficienti a non sporcarmi. La merda era finita ovunque, anche sui polpacci, e ormai la mia dignità era finita in quella stradina residenziale di South Kensington. Trattenni il fiato a riallacciarmi i pantaloni sentendo il pasticcio nelle mie mutande. Ero un uomo ricolmo di merda, ma con una strano sorriso malinconico e beffardo sul viso,

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sudato e bagnato.

Tornai alla stazione dell’autobus, mi guardai intorno e tirai un sospiro di sollievo. Sapevo che quei pantaloni li avrei dovuti buttare, sentivo un po’ di fetore, mi distesi sulla panchina sotto l’insegna luminosa degli orari dell’autobus (il prossimo sarebbe passato in non meno di un’ora) e presi a piangere e poi a ridere e infine a sorridere di malinconia e alla fine mi sentii più forte.

Presi l’autobus e, arrivato a Waterloo, m’incamminai per Lambeth North. Dopo aver perso la strada e chiesto a qualche vagabondo del circondario, trovai il mio ostello, erano le cinque del mattino. Entrai nella stanza, con la solita puzza di spazzatura di George, presi l’occorrente per la doccia e fiondai per l’ultima volta i pantaloni e le mutande giù dal sesto piano dove stavo.

Il giorno dopo mi licenziai dal ristorante, non prima di aver inscenato una sorta di teatrale commedia di sindacalismo, lamentandomi del basso salario e delle condizioni igienico-sanitarie. E poi giurai a me stesso che dopo dodici ore di lavoro, se mai fossero più ricapitate in un altro posto, mai e poi mai avrei bevuto birra ghiacciata e mangiato parmigiana con la besciamella filante.

Conta che quella notte me la ricordo ancora. Conta che dopo tanti anni sono ancora convinto che per me ci sarà una salvezza e che questa sarà nella donna che amo. Conta che quella notte mi ha aiutato a credere che ogni cosa che faccio, ogni sacrificio, ogni umiliazione saranno sempre ripagati. Grazie, mia cara vecchia Londra.

I’ve been hearing things
voices carry over the water
Things i can’t deny,
night after night,
night after night,
night. (cit. The Walkmen)

 

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