Francia, viaggio in Borgogna, ecco la Cote d’or, terra mitica per gli appassionati di vino. E qui dal vino non si scappa.
Qui ogni metro quadrato è coperto di vigne. Sono piante fitte, ordinate, curatissime e basse, circa quaranta centimetri. I filari si fermano solo poco prima della cima delle morbide colline, ricoperte di boschi scuri. È un panorama familiare, che mi sembra di conoscere già, molto diverso dal Maconnais dal quale arrivo. Ho un deja vu un po’ come quando si arriva per la prima volta a New York dopo aver visto decine di film americani: qui in Borgogna è tutto come nel libro che ho studiato per l’esame da sommelier. È un territorio immutato da secoli: la sua vocazione fu forse scoperta di romani, poi Carlo Magno ci fece piantare un vigneto (a Corton-Charlemagne), infine venne diviso, lavorato dai monaci cistercensi che gli diedero forse la forma attuale e per ultimo passò Napoleone, che amava il vino di Chambertin.
Panorama di Borgogna (foto di Patrick Colgan, 2014)
Questa striscia di colline è un tratto della cote d’or che ha il suo centro negli abitati di Nuit-Saint-Georges e Beaune e in effetti questi terreni sono davvero d’oro, costosissimi così come i vini che producono. Sono classificati parcella per parcella a seconda del pregio, in modo assurdamente immutabile. Ma alla fine un po’ per la tradizione, un po’ per l’unicità dell’insieme di terreno e clima, tutto quello che i francesi chiamano terroir, questo angolo della Borgogna è forse la zona vinicola più famosa al mondo. Forse è anche qualcosa di più, una terra mitica per chi ama il vino. Andrea Scanzi con ironia scrive infatti che ‘qui le zolle sanno d’incenso. È il paradiso, non si discute’.
Il clos des Argillieres, premier cru (foto di Patrick Colgan, 2014)
Un clos borgognone (foto di Patrick Colgan)
Ma questa parte di Borgogna è anche molto bella oltre che mitica, il paesaggio ha un fascino intenso anche nella sua monotonia. La regolarità del panorama, con l’alternarsi di varie sfumature di verde, è addirittura ipnotica e viene rotta solo da muri grigi che tagliano i pendii. Sono gli antichi clos che delimitano le vigne più pregiate, è come se dessero profondità, consistenza, realtà alla storia di queste zone, così come i castelli e le case che spuntano qua e là. Provo a opporre resistenza a queste immagini, osservo gli edifici in questa distesa di filari e provo a vestire i panni del cinico. Mi viene da pensare che, visti i prezzi dei terreni, sarebbe stato un affare interessante abbattere queste costruzioni. Calcolo quanto spazio per nuove viti si sarebbe potuto trovare abbattendo un edificio. Ma in realtà mi sbaglio, sono calcoli insensati, perché senza i nomi di questi paesi, mancherebbe una fetta di storia di questo posto, la Borgogna del vino non sarebbe la stessa, anzi, forse non esisterebbe: i nomi di questi piccoli abitati sono quelli dei vini più nobili come Romanée-Conti, Gevrey-Chambertin, Pommard, Vougeot. E spesso proprio fra quelle case letteralmente immerse nelle vigne si nascondono le cantine secolari dove il vino matura nelle botti di rovere.
Le vigne fin dentro al paese di Gevrey-Chambertin (foto di Patrick Colgan, 2014)
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Fra le cantine della Borgogna
Il vino qui costa, tanto, sia che parliamo dei bianchi a base chardonnay – prodotti nella zona più a sud, intorno a Beaune -, che dei rossi – il cui regno è intorno a Nuits-Saint-Georges – i prezzi partono da 50 euro in su e i prezzi, curiosamente, scendono drasticamente solo per i crémant, l’equivalente dello champagne: si acquistano bottiglie eccezionali a sei, nove euro. Se i prezzi sono altissimi – e non sempre sinonimo di qualità – di conseguenza anche i ristoranti e le enoteche si adeguano. Non c’è nulla di regalato.
Anche per questo mi aspetto snobismo, un’aura di inaccessibilità. E invece dopo aver scritto per email ad alcuni produttori da semplici appassionati, con nostra sorpresa ci vengono fissati alcuni appuntamenti che sconvolgono molte cose che abbiamo imparato al corso da sommelier. A Savigny-les-Beaune, il giovane titolare della Parigot, Gregory Georger, ci accompagna nella visita della sua azienda dove le bottiglie di crémant riposano e quasi tutto viene fatto a mano, come cinquanta, cento anni fa, compreso il remuage, il piccolo movimento rotatorio che si fa alle bottiglie in affinamento per far convogliare i residui dei lieviti verso il tappo. Un’operazione delicata che qui fa una sola persona, capace di girare con abilità migliaia di bottiglie in un giorno. Ormai tantissimi si affidano alle macchine. Georger ci racconta che lui è fortunato, è l’ultimo discendente di una famiglia che è nel settore da molto tempo, ma è molto difficile iniziare. “I giovani senza enormi mezzi qui non sono in grado di acquistare terreni, costano troppo -dice -, così vanno verso il Maconnais, il Beaujolais, regioni che proprio per questo stanno diventando interessanti: c’è voglia di sperimentare, di provare”. Ma cos’è una terra dalla quale i giovani sono esclusi? Lo scopriamo poco dopo. Veniamo accolti – sempre su appuntamento – anche nella cantina di Philippe Pacalet che sempre Scanzi chiama – giustamente – ‘piccolo gigante’. Pacalet ha trovato la sua via per restare in Cote d’or: va a caccia dei rari terreni in affitto, anche piccolissimi, ne vede la potenzialità e trova il modo migliore per interpretarli con un rigoroso lavoro a mano e biologico nella vigna e riducendo al massimo l’intervento nella sua cantina che ospita oltre trenta vini diversi, prodotti spesso in quantità limitatissima, anche solo una botte. Per chi ne capisce, non usa lieviti selezionati e non filtra neanche il vino, che qui si degusta secondo l’usanza borgognona. La moglie di Pacalet ce lo preleva direttamente dalla botte, e quello che resta nel calice dopo l’assaggio si rimette dentro. Usciamo con tre bottiglie, care, ma davvero preziose. Uniche.
Le bottiglie di crémant sulle pupitres per l’affinamento, da Parigot
(foto di Patrick Colgan, 2014)
La cantina del ‘piccolo gigante’ Philippe Pacalet
(foto di Persorsi )
Non solo vino
Qui in Cote d’or le vigne e le bottiglie dominano la scena. Anche i castelli sono indissolubilmente legati alla storia enoica del territorio, come lo Chateau du Clos de Vougeot che galleggia fra onde verdi di pampini e grappoli grand cru. Alla fine della visita (evitabile e un po’ noiosa) restano impresse le enormi, antiche macchine per fare il vino. Bisogna spostarsi nella cittadina di Beaune per vedere qualcosa di radicalmente diverso. L’Hotel Dieu, ispirato all’architettura fiamminga, è un gioiello sfolgorante che ci trascina nelle mille storie che si sono incontrate in questo ospedale rimasto in servizio fino al 1984: la storia francese, quella della sanità pubblica, quella religiosa. Ma dopo circa un’ora e mezzo di visita vediamo qualcosa di familiare, piattini d’argento di varie forme che hanno un aspetto familiare. Sono tastevin, che un tempo si usavano per degustare il vino e che ancora oggi sono il simbolo dei sommelier. Poi eccole, anche qui le bottiglie. L’Hotel dieu fra tante donazioni e lasciti ricevette anche delle vigne. E ancora oggi, ogni anno, i suoi vini vengono messi all’asta per beneficenza a prezzi altissimi. Ancora vino, anche qui. In Cote d’or non si scappa.
Lo Chateau du Clos de Vougeot (foto di Patrick Colgan, 2014)
Hotel Dieu, Beaune (foto di Patrick Colgan, 2014)
Come arrivare, dove alloggiare
La Côte-d’Or è un’ora e mezza d’auto a nord di Lione, circa 160 chilometri. L’aeroporto più vicino è quello di Digione, capoluogo della Borgogna e confine nord della cote. Per l’alloggio consiglio la zona di Beaune e ho particolarmente apprezzato le chambre d’hotes, sorta di bed & breakfast francese, molto conveniente. Abbiamo alloggiato da Le Colombier (la cui piscina è particolarmente gradita nelle giornate più calde, si arriva ben oltre i 30 gradi) vicino a Beaune e Les Grappes de Nuits, nel centro di Nuits-Saint-Georges. Sono senza dubbio due buoni indirizzi. Tutte le informazioni su come organizzare un viaggio enoico in Borgogna (e qualche nota per capire il vino francese) sono su Persorsi.