Sono ormai le dieci quando il mio aereo partito dal Cairo atterra a Beirut. Avevo cercato inutilmente un passaggio via mare da Port Said, ma la complessa situazione del Medio Oriente ha tagliato drasticamente il trasporto di passeggeri sul Mediterraneo.
Il moderno aeroporto della capitale del Libano mi accoglie con un’atmosfera soffusa di luci calde, vetrine eleganti, file ordinate di viaggiatori alle prese con le pratiche di imbarco e sbarco. Nulla che ricordi la drammatica guerra contro l’occupazione israeliana che si è conclusa solo pochi anni prima, nulla che annunci la tragica minaccia islamista che spinge dalla Siria e che si manifesterà due settimane dopo con il primo dei tre attacchi suicidi rivolti contro le forze di sicurezza.
Mi lascio agganciare da un autista nella sala degli arrivi e mi faccio accompagnare ad una moderna e confortevole Peugeot bianca e lucida. Ovviamente l’indirizzo che gli ho dato non lo conosce e quando saremo a destinazione la discussione per farmi pagare un prezzo che non sembri una rapina in piena regola mi impegnerà per circa venti minuti.
L’indirizzo in questione è quello di Hostel Beirut, il primo vero e proprio ostello della città, nato dalla passione di Kristian Paulsen, un esule danese che quando ha deciso di fermarsi in Libano ha voluto combinare lavoro e volontariato in un’unica sede. Così ha fondato un’organizzazione non governativa a cui è intestato l’ostello e che impiega volontari provenienti da tutto il mondo nel riciclaggio di materie prime ricavate dai rifiuti delle attività commerciali della città.
Oltre a offrire il suo contributo alla delicata situazione ambientale che la guerra civile aveva ulteriormente deteriorato, Kristian ha creato posti di lavoro per manodopera non qualificata e li ha destinati ai rifugiati siriani che a centinaia superano la frontiera ogni giorno per sfuggire all’orrore della guerra.
Ma la città, pur vivace e dinamica, non basta a farsi un’idea del complesso mondo libanese, unica nazione del Medio Oriente in cui cristiani e musulmani convivono da secoli condividendo il potere secondo una costituzione confessionalista in cui i ruoli direttivi sono esplicitamente destinati ai rappresentanti di maroniti (cattolici), sunniti e sciiti. Così dopo una breve gita di a Biblo per ammirarne i resti archeologici, con alcuni ragazzi decidiamo di affittare una macchina e buttarci all’avventura verso sud.
Non è il mio primo viaggio in macchina nel mondo arabo, in Tunisia avevo accarezzato il piacere della guida nel deserto e in Egitto mi ero lasciato scarrozzare verso l’oasi di Fayyum, ma non mi abituerò mai alla sfrenata aggressività degli automobilisti di questo angolo del mondo. Per fortuna sviluppiamo presto un’arma segreta: il gesto delle dita raccolte che in italiano significa grosso modo “che cosa vuoi?” qui è reinterpretato come “fermo!”, e sembra che non importi quanti diritti di precedenza si infrangano, con questo semplice gesto ci proiettiamo attraverso il caotico traffico cittadino senza riserve.
La nostra prima meta è Sidone (Sayda), situata nel Governatorato del Sud e capitale dell’omonimo distretto. Nella Genesi, Sidone è il figlio di Canaan, nipote di Noé, e nell’arabo moderno il termine sayda significa “pesca”. La città in effetti è un grazioso agglomerato sulla costa e noi veniamo immediatamente attratti verso il Castello del Mare, una fortezza di crociata memoria di cui oggi non resta che l’affascinante carcassa, e che si slancia romanticamente verso il mare dal centro del tratto costiero cittadino.
Girovagando per i vicoli stretti e bui della città vecchia ci mettiamo alla ricerca di un alloggio. Sebbene la lingua ufficiale del Libano sia l’arabo moderno, la popolazione parla una sorta di dialetto locale che mette in crisi le nostre già flebili competenze linguistiche. Per fortuna molti parlano anche l’inglese o il francese, così in qualche modo riusciamo a trovare un vecchio convento cristiano riconvertitosi a ostello.
È l’unico alloggio sotto i 40 dollari a persona di cui avevamo notizia (il Libano non è una destinazione economica), perciò ci infiliamo senza troppi indugi nelle camere spartane e lasciamo i nostri bagagli prima di andare in cerca di pesce tra i ristoranti (tutti uguali) del centro).
Il giorno dopo ci aspetta una missione delicata: ottenere il lasciapassare dell’esercito per poterci spingere verso sud. Infatti, sebbene la rivolta degli Hezbollah abbia sancito nel 2006 la sconfitta di Israele e il ritiro delle sue truppe, il profondo sud del paese è ancora soggetto a tensioni e i frequenti posti di blocco respingono tutti i viaggiatori che non siano in possesso del lasciapassare idoneo.
Per nostra fortuna a Sidone c’è una base militare dove vengono emessi questi permessi, serve solo una copia del passaporto e una faccia raccomandabile. Serve anche capire dove si vuole andare, ambito in cui noi disorganizzati avventurieri siamo poco preparati: dopo ore perse per individuare l’ufficio esatto e una conversazione tragicomica con il sottufficiale in servizio, abbiamo realizzato che per mancanza di tempo non ci saremmo spinti più a sud di Canaan e che quindi noi il lasciapassare non serve proprio a nulla.
Canaan è una delle tante località che prende il nome dalla regione geografica tanto citata nell’Antico Testamento e in cui si svolsero le famose nozze teatro del primo miracolo di Gesù. Come per tanti altri grandi successi letterari, anche il sacro libro di ebrei e cristiani ha prodotto una corsa schizofrenica per accaparrarsi il titolo di “la città dell’episodio biblico”. Nel caso di questa Canaan, l’assurdo risultato è rappresentato da una caverna addobbata come fosse Natale e di cui il collegamento con le famose nozze resta a noi un mistero ancora oggi.
Molto meno frivola è invece la vista della devastazione lasciata dalla guerra con Israele, interi palazzi rasi al suolo, strade dissestate, un vecchio carrarmato abbandonato. Ci sentiamo un po’ colpevoli per essere solo degli ingenui turisti in un luogo che ha visto dolore e sofferenza scorrere nel sangue delle vittime di una guerra che non avevano chiesto, e mentre zittiamo la nostra coscienza sulla strada verso Tiro (Sur) incrociamo un convoglio di caschi blu che ci ricorda come la ripetizione della tragedia sia ancora in attesa dietro una porta socchiusa.
Alla fine degli anni Quaranta, dopo la dichiarazione di indipendenza di Israele, Tiro accolse numerosi rifugiati palestinesi. La guerra civile degli anni Settanta e Ottanta colpì pesantemente la città che fu in seguito sottoposta anche all’occupazione israeliana. Come se non bastasse, dopo il ritiro delle truppe israeliane e lo scoppio dell’ultimo conflitto nel 2006 arrivarono i bombardamenti.
Noi però, solo vagamente consapevoli della sofferenza che ci circonda nel tempo e nello spazio, troviamo un insenatura rocciosa in cui fare il primo bagno, ci concediamo una birra in riva al mare, poi ci dirigiamo verso l’ampia spiaggia di sabbia fine poco oltre il centro. E lasciamo che il sorriso cordiale dell’ospitale popolazione di Tiro sciacqui via le nostre inquietudini.