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Vibo Valentia, arrestato ex capo della Mobile

Creato il 28 febbraio 2014 da Makinsud

Una notizia che ha del clamoroso, nel senso più disdicevole del termine. Una notizia che ha scosso l’intera Calabria, in particolare Vibo Valentia, se non altro per il ruolo dei soggetti coinvolti. Si tratta di due arresti operati dai Ros dei Carabinieri per ‘ndrangheta: ordinaria amministrazione, dunque, in una terra costretta a convivere con tale atavico male? No. Il “clamoroso”, infatti, è l’identità degli arrestati e, più che altro, la loro posizione: l’ex capo della squadra mobile di Vibo Valentia Maurizio Lento ed il suo vice Emanuele Rodonò.

L’accusa è chiara ed esplicita: concorso esterno in associazione mafiosa e, per questo, i due si trovano ora rinchiusi nel carcere militare di Santa Maria Capua a Vetere, in provincia di Caserta.  I due alti funzionari di Polizia avevano rapporti diretti con i boss di una delle famiglie di ‘ndrangheta più potenti della Calabria meridionale, il clan Mancuso di Limbadi, paese in Provincia di Vibo Valentia. Rapporti diretti che comportavano passaggi di informazioni riservate inerenti le indagini in corso della Polizia, oltre che un ruolo attivo dei due funzionari nel depistare le indagini, nell’omettere comunicazioni ai magistrati, pilotando gli arresti ed indirizzandoli soltanto verso i membri dei clan avversari alla famiglia Mancuso, ossia gli “emergenti Piscopisani”.

vibo valentia

Com’era possibile tutto questo? Un ruolo “chiave” era quello del legale del boss, Antonio Galati, anche lui tratto in arresto nell’ambito dell’indagine della Dda di Catanzaro. Il legale, di fatto, aveva costruito una fitta rete di rapporti e faceva da tramite fra i due funzionari di Polizia ed il suo assistito, Pantaleone Mancuso. Grazie al ruolo di cerniera dell’avvocato Galati, infatti, i Mancuso potevano contare sulla “protezione dall’alto” ma anche su preziose informazioni che giungevano direttamente dalla Procura di Vibo Valentia considerando i rapporti d’amicizia fra il legale ed alcuni magistrati e che lo stesso avvocato Galati usava tali rapporti per fomentare liti nei confronti dei magistrati più avversi al clan Mancuso.

La situazione, dunque, si muoveva sul sottile equilibrio della “collaborazione” fra i due funzionari ed il legale del boss, il coinvolgimento delle “gole profonde” e le rassicurazioni nei confronti del clan Mancuso di  che, come rilevato dalle intercettazioni dell’indagine, non doveva essere toccato “per questioni di gerarchia”.

Una circostanza aberrante o – per dirlo con le parole del Gip –  “devastante”, ed il quadro d’insieme che ne risulta non può che essere desolante, alla luce di due funzionari dello Stato che per lungo tempo hanno svolto il loro ruolo in maniera a dir poco distorta, alimentando e favorendo lo svolgersi di fatti criminosi.

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