Secondo il vocabolario Treccani, il termine “balcanizzazione” indica una “perturbazione dell’ordine interno di un paese con conseguente indebolimento politico o smembramento artificioso in più Stati.” Introdotto in riferimento alle dinamiche che hanno interessato la regione balcanica alla fine della Prima Guerra Mondiale, descrive la frammentazione etnica e politica che fece seguito alla dissoluzione dell’Impero Ottomano. L’esistenza stessa di un tale termine segnala come la storia dei Balcani sia stata, nel secolo scorso, tormentata: le sue dinamiche, infatti, hanno contribuito a fomentare due guerre mondiali e a gettare le basi, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, del contrasto russo-statunitense, con le conseguenze che a tutti sono note. In realtà, le forze che hanno animato questa “vitalità” dei Balcani non sono scaturite soltanto da questioni prettamente balcaniche, ma anche dalla volontà di Stati più forti, extrabalcanici, di dominare questa importante regione.
D’altra parte, la posizione dei Balcani, di per sé, determina il suo stesso destino: situata al punto di giuntura dei grandi imperi del mondo pre-guerre mondiali – potenze europee, Impero russo, Impero ottomano – i Balcani hanno funzionato per secoli da “ammortizzatore” tra le velleità espansionistiche delle varie potenze, pagando questo ruolo con una ripetuta e variabile frammentazione. Il risultato di queste spinte si è configurato, appunto, nella “balcanizzazione” della regione; pratica quest’ultima che ha permesso alle grandi potenze internazionali di “smembrare” qualsiasi impulso all’unità regionale e di enfatizzare le potenziali dinamiche di frattura al fine di creare disordine. E, in un tale ambiente, di penetrare tra le pieghe degli scontri balcanici per imporre quanta più influenza possibile.
Dinamiche simili si stanno ripresentando anche in questo ventunesimo secolo, laddove le grandi potenze del mondo di oggi trovano nei punti di giuntura tra le sfere di influenza terreni di scontro che ammortizzino, a proprie spese, le rispettive spinte espansionistiche. Il ruolo dei Balcani nel 2000 sembra essere passato all’area nordafricana e vicino-orientale, con estensioni consistenti anche in Asia Centrale. Infatti, sebbene nei Balcani stessi la situazione sia tutt’altro che stabile, negli ultimi decenni è l’area vicino-orientale la nuova frontiera di conquista. In questo caso, una frontiera 2.0, aggiornata agli anni successivi al 2000 e, soprattutto, ai principali attori geopolitici internazionali che caratterizzano la nostra epoca. Il Vicino Oriente, infatti, occupa il punto di giuntura delle sfere di influenza di diverse potenze attuali: l’Europa euro-atlantica, la Russia, l’Arabia Saudita, l’Iran, ma anche, tramite la propaggine centroasiatica, la Cina e l’India. Inoltre, il versante nordafricano di questa giuntura fa da cuscinetto tra l’influenza europea e i diversi potenziali paesi emergenti africani. Un tale quadro, già di per sé indicativo della posizione cruciale che la regione occupa, è complicato dal fatto che parte consistente di questa macroarea è dotata di risorse energetiche che fanno gola a tutte le potenze. Un miscuglio esplosivo di elementi geo-strategici che sta già dimostrando buona parte del suo potenziale distruttivo.
Anche nel Vicino Oriente e in Africa Settentrionale la strategia che le grandi potenze stanno attuando per il controllo dei nuovi Balcani 2.0 è sempre la stessa: balcanizzazione. Una balcanizzazione, tuttavia, diversa, più sottile, ma forse più subdola: si tratta di uno smembramento in apparenza più velato, meno definitivo, ma proprio per questo foriero di continui conflitti. Uno smembramento che non riguarda tanto la divisione di macrostati in staterelli più piccoli, quanto piuttosto la creazione, all’interno del singolo Stato, di entità ufficiali e ufficiose semi-autonome o dotate di forti mezzi di influenza (armi, rappresentanza a livello politico, appoggio esterno..). Una tale conformazione lascia intatta, nella forma, l’unità e l’integrità statali; tuttavia, di fatto crea una situazione politica interna di continuo potenziale conflitto, laddove il governo centrale non è in grado di imporre la propria autorità ad una serie di forze parallele e risulta, pertanto, debole. Questa debolezza inibisce l’effettività e l’autonomia del governo, che è pertanto costretto, per non soffocare, a cercare l’appoggio delle potenze esterne; inoltre, lo stato di caos che regna in questi paesi rende più digeribile, agli occhi dell’opinione pubblica e della cosiddetta “comunità internazionale”, un eventuale intervento (armato) diretto, magari presentato come azione di “peacekeeping”.
C’era una volta il Paese dei Cedri
L’esempio principe di un tale frazionamento della vita politica di uno Stato è, in area vicino-orientale, il Libano. Nel Paese dei Cedri vige infatti un sistema noto come “confessionalismo”. Il “Patto Nazionale” del 1943, a integrazione della costituzione del 1926, assegna le più alte cariche dello Stato ai tre principali gruppi confessionali presenti nel paese: il Presidente della Repubblica è maronita, il Primo Ministro è sunnita, il Presidente del Parlamento è sciita. Gli eventi successivi al 1943, soprattutto la sanguinosa guerra civile e l’emergere del conflitto arabo-israeliano, hanno portato all’emergere di nuovi gruppi, ufficiali e informali, che hanno gradualmente conquistato sempre più spazio all’interno dell’arena politica libanese: il più noto è Hezbollah. Tuttavia, l’estrema frammentazione del Libano, dove sono presenti circa 18 confessioni diverse, ha sancito, di fatto, l’incapacità e l’impossibilità del governo libanese di imporre una direttrice unitaria al paese. Non a caso, il Libano non detiene un ruolo attivo nei giochi vicino-orientali da decenni e il suo territorio è stato, in diverse occasioni, teatro di scontri per procura tra le potenze, vicine e meno vicine, dove le uniche forze locali emerse sono singoli gruppi, sfuggiti al controllo statale.
Il Libano, pertanto, può essere indicato, sotto certi aspetti, come esempio precursore di un nuovo tipo di balcanizzazione, in cui la divisione viene istituzionalizzata e il paese rimane formalmente unito, ma nei fatti frammentato e fragile. La novità di questo modello è tale che appare plausibile parlare di “libanizzazione”. Dagli esiti disastrosi, come i fatti del 2006 hanno dimostrato. Ne è nato un paese relativamente impotente sul piano internazionale, che può essere invaso e attaccato a piacimento dai vicini, dove le azioni dei singoli gruppi interni possono portare a scontri a livello internazionale. Un grande parco dei divertimenti per le grandi potenze globali, così come per le aspiranti potenze regionali, che possono scorazzare in questa sorta di free trade zone della guerriglia strategica con una certa garanzia di impunità (Siria e Israele docent).
Paese che vai.. libanizzazione che trovi
La soluzione libanese era troppo ghiotta per non essere ripresentata in altri paesi. E quale occasione migliore dell’Iraq per sperimentare nuove frontiere di frammentazione, proprio al tempo di George Walker Bush? Il caso iracheno è emblematico. L’idea fondamentale era quella di rovesciare con la forza un regime e impostare un nuovo ordine politico basato su una sorta di confessionalismo istituzionalizzato, analogo a quello libanese, ma più ristretto. In un tale sistema, lo scontro tra le forze interne al paese avrebbe determinato l’equilibrio, rendendo al contempo l’Iraq sempre troppo debole (e bisognoso di aiuti dall’esterno) per intraprendere iniziative a livello regionale e internazionale. Così, la nuova Costituzione irachena del 2005 prevede che il Presidente della Repubblica sia di etnia curda e il Presidente del consiglio sia invece sciita. Con buona pace dei Sunniti, per non parlare dei Cristiani.
L’amministrazione di George Walker, tuttavia, non sembra aver tenuto in sufficiente considerazione alcuni precedenti nella storia irachena: gli anni di repressione che sotto il governo di Saddam Hussein avevano vessato sia gli Sciiti sia i Curdi, i disastri delle guerre del Golfo e dell’occupazione, l’umiliazione e la marginalizzazione dei Sunniti dopo la caduta di Saddam; a questo, poi si aggiunge la volontà di autodeterminazione radicata nella nazione curda, destinata a non accontentarsi di essere una regione semiautonoma, quanto piuttosto di voler diventare un governo autonomo a tutti gli effetti. Questi sono gli elementi chiave che convivono nell’attuale sistema iracheno, che sebbene tenti di mostrarsi unito nelle scene internazionali, appare più frammentato, e debole, che mai. Un caso esemplare di libanizzazione! Da questo punto di vista, è possibile ritenere che in realtà la cricca di George Walker tenesse in sufficiente considerazione questi elementi, e anzi li abbia veicolati nella costituzione di questo “Libano mesopotamico”. Che, a giudicare dalla frequenza con cui vi si consumano attentati, risulta tutt’altro che stabile.
Passano gli anni, passano le amministrazioni, ma l’inarrestabile cammino evolutivo della libanizzazione prosegue. Si arriva così al 2011, l’anno delle rivolte arabe, ma anche delle sperimentazioni nel campo delle nuove frontiere della frammentazione politica. All’inizio dell’estate, il mondo assiste a una rapida parentesi di balcanizzazione in Sudan, questa volta secondo i canoni della vecchia scuola del ‘900: a luglio, infatti, fu sancita la divisione del più esteso Stato africano in due entità, Sudan e Sud Sudan; quest’ultimo ricco di petrolio e molto più sensibile, rispetto alla controparte settentrionale, alle istanze delle grandi potenze euro-atlantiche. Tuttavia, le avventure africane che hanno ottenuto la maggiore ribalta nel 2011 si sono svolte in Libia. In sintesi, la crisi libica è stata risolta (e forse creata) attraverso l’esasperazione delle velleità autonomistiche da parte di una regione, la Cirenaica, dove si sono incrociati gli interessi euro-atlantici e di diversi gruppi “informali”. Lo scopo immediato era il rovesciamento forzato di Gheddafi, e l’impostazione di un sistema, in Libia, certamente più caotico e indeterminato rispetto a quello della Jamahiriya gheddafiana, ma sicuramente meno refrattario alle influenze delle grandi potenze. In Libia, tuttavia, si assiste a un nuovo tipo di sperimentazione: non più la libanizzazione, o balcanizzazione istituzionalizzata, secondo il modello iracheno, quanto piuttosto una sorta di divisione non ufficializzata, largamente “informale”, che poggia non soltanto sulle diverse istanze delle tre principali regioni del paese (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan), ma anche e soprattutto sulla frammentazione tribale. Proprio ciò che Ghaddafi si era sempre peritato, anche con metodi estremi, di contenere.
In questo senso, il nuovo esperimento libico consiste nel dare spazio a tutte le spinte centrifughe del paese, che rimane così in uno stato costante di scontro, di fragilità, e, pertanto, di estrema debolezza. Ma anche di estrema pericolosità, come la recente uccisione dell’Ambasciatore statunitense ha confermato. Tuttavia, è proprio questo disordine, questo senso costante di instabilità che può giustificare, qualora ce ne sia bisogno, interventi, anche pesanti, nel territorio libico. Non a caso, la morte del diplomatico statunitense è diventata un motivo sufficiente per giustificare l’invio, da parte degli Stati Uniti, di nuove truppe (navali e droni) nel paese. Così, la presenza a Stelle e Strisce in Libia non è più coperta dalla foglia di fico della NATO, ma al contrario diventa un “motivato” e aperto dispiegamento di forze statunitensi in suolo libico. Un capolavoro, nel suo genere, che permette agli Stati Uniti di perseguire il proprio disegno di Nuovo Ordine Mondiale liberando tuttavia l’amministrazione Obama dell’antipatia da parte dell’opinione pubblica mondiale; un sentimento che i rozzi metodi di George Walker attiravano come le api sul miele.
In questo senso, appare evidente come nel caso dell’esperimento libico non sia più possibile parlare di libanizzazione. Come definire pertanto il capolavoro “obamiano”? Tribalizzazione? Yemenizzazione? In questo caso, probabilmente, ci troviamo di fronte alla versione più evoluta del divide et impera, la balcanizzazione 2.0 di cui si parlava all’inizio. Tuttavia, si sa, l’inesorabile cammino del progresso difficilmente può essere arrestato, e c’è da scommettere che in un futuro prossimo verranno tentati altri esperimenti sempre più sottili e versatili. Il prossimo paese scelto per queste sperimentazioni sembra essere proprio la Siria. Diversi analisti ritengono che una soluzione del conflitto siriano, una volta abbattuto Bashar al-Asad, potrebbe essere proprio la frammentazione del paese in aree di influenza di diverse entità: una di orientamento sunnita, una sciita-alawita, un’altra di matrice curda. Ancora una volta, balcanizzazione! In questo schema, poi, si inseriscono le altre comunità presenti in Siria, come i Drusi o i Cristiani, per cui i diversi autori preconizzano destini differenti. Attualmente, non sembra ancora chiaro il destino di questo paese, forse nemmeno agli occhi di coloro che tanto si battono per rovesciare il sistema politico durato in Siria fino al 2011. In questa fase d’incertezza, tuttavia, un nuovo pericolo sembra fare capolino: che tra qualche tempo si diffonda tra gli esperti del settore un nuovo modello, la “sirianizzazione”.