Taranto. Via Calabria, il “vicolo dell’acciaio”, quello in cui abitano le famiglie degli operai dell’Italsider, è la realtà di Mino Palata e dei suoi compari, un mondo «fatto di laminatoi, cokerie, bramma, tubi, elettrozincatura, ricottura statica e compagnia cantante… ogni tanto un via Calabria 75 ci lascia le penne. Lo mettiamo in conto». È dura la vita degli uomini dell’acciaio; è un continuo alternarsi di turni estenuanti all’industria siderurgica e birre trangugiate appoggiati al muro di mest’Arture. L’Italsider, come un mostro, gonfia le sue lingue di fuoco e incombe minacciosa su tutti: padri di famiglia, mogli e figli di via Calabria. È un burattinaio che muove i fili di ognuno, nella via, e che induce tutti a chiedersi quando si spezzerà il prossimo e a chi toccherà cadere in ginocchio o finire dritto in una bara.
È caotica via Calabria, specchio degli ultimi che la abitano, di quell’umanità dimenticata, eppure viva e resistente, con i suoi riti, le sue regole e il suo gergo – un impasto di italiano e vernacolo tarantino di grande efficacia; vi si trovano uomini dalla dubbia moralità, donne pronte ad azzuffarsi per un matrimonio non proprio “tradizionale”, ragazzi e ragazze che cercano un riscatto nello studio, ma il cui destino è inevitabilmente intrecciato al fumo nero che esce dalle canne fumarie del mostro. D’altronde, sono tutti consapevoli che «abbiamo in corpo, a famiglia, più benzene, polveri cancerogene, diossina, policarburi aromatici e gas saturi di non so nemmeno io che cosa…».
Le vicende di Mino Palata e di suo padre, il Generale, sono emblema di questo microcosmo popolare sottoposto non a selezione naturale, ma “siderurgica”. Il Generale, uomo rispettato da tutti, un “prima linea”, fatto dello stesso acciaio che forgia all’industria, vede scomparire a poco a poco amici e colleghi, tutti avidamente ingoiati dal mostro; e Mino, che potrebbe sfuggire alla “sorte d’acciaio” che sta lentamente piegando suo padre, studia distrattamente legge, pur essendo consapevole che il suo scarso impegno, dettato da uno sguardo disilluso sul mondo (e cioè su via Calabria), rischia di allontanarlo dalla fidanzata, la sensuale “sudanese” Isa, determinata invece a cambiare il suo destino, costruendosi con tenacia un futuro migliore.
Non c’è una storia vera e propria in Vicolo dell’acciaio (e forse l’assenza di un plot convenzionale può sembrare un punto debole del romanzo), ma, in compenso (e che compenso!), c’è la Vita: il folklore di una città e della gente che la abita; le vicende di Mino Palata, di suo padre, di Pirdo, Trottola, Maddalena, Stefano: migliaia di esistenze “insignificanti” che condividono la stessa sorte. Cosimo Argentina intinge il pennello nei toni freddi della tavolozza e raffigura un quadro plumbeo e assolutamente realistico, stemperando il tutto con numerose spruzzatine d’ironia, che non bastano, però, a controbilanciare il dolore e la rassegnazione di cui si compone il romanzo.
La lingua di Cosimo Argentina è un fiume in piena che infrange gli argini dell’espressione tradizionale e che, straripando, irrompe con violenza nell’animo del lettore, prendendolo “di pancia”: sembra quasi che lo scrivere sia per lui una sorta di terapia, l’unica in grado di liberarlo dai suoi “demoni”; è attraverso la scrittura che riesce a recuperare quel rapporto viscerale che lo lega alla sua Taranto, per la quale sembra provare al tempo stesso un amore uterino e un profondo odio (dettato forse dalla consapevolezza del decadimento fisico e morale della città). È una scrittura “onesta” la sua, libera da costrizioni formali, fronzoli inutili, logiche editoriali: risponde a una necessità, all’esigenza di dire e dirsi senza censure. È la scrittura di un autore italiano che, forse proprio per la sua lealtà intellettuale e artistica, non non ha ancora ottenuto tutto il successo che merita e che, mi (e gli) auguro, il panorama letterario nazionale gli riconosca presto.
Angela Liuzzi
Cosimo Argentina, Vicolo dell’acciaio, Galleria Fandango, 261 pp., 15 euro