Video-Intervista T*: "La storia di Deborah che presto sarà Lele".

Da Lametamorfosiftm
Si chiamava Deborah, con l'acca, come sottolinea ironico nel ricordo del retaggio borghese della famiglia che l'ha rinnegato. "Già a tre anni non mi sentivo nei vestitini rosa - racconta Emanuele - e a nove i miei genitori hanno capito. E sono state botte da orbi" «Metti le ali e voli»: dice Lele. Appare sereno. Si è ribattezzato così da solo, scegliendo il suo secondo nome, Emanuele-Emanuela, che non a caso significa «Dio è con noi». Prima si chiamava Deborah, con l'acca, come sottolinea ironico nel ricordo del retaggio borghese della famiglia che l'ha rinnegato con sdegno, ma che sotto sotto trepida per lui, visto che non gli ha mai fatto mancare un bene spicciolo come l'assegno mensile, per quanto lui abbia sempre lavorato.GUARDA LA VIDEO-INTERVISTA
È la prima "donna" che diventa uomo e che verrà operata entro la fine del mese a Pisa, nell'Azienda ospedaliero-universitaria, anche se all'ombra della Torre un intervento del genere, lo precisa «lui», sarebbe già avvenuto, ma in forma privata, l'anno scorso, su un cinquantenne che abita in Versilia. Da quando è entrato in terapia, psicologica e farmacologica, due anni fa, e da quando ha saputo che la sua vita poteva cambiare e ha visto «un nuovo corpo sbocciare come dalla creta», è rinato. E appunto «vola».
Lele Baldini ha 44 anni, appartiene a una ricca famiglia milanese di commercianti e fino a poco tempo fa ha vissuto a Pisa, mentre ora sta a Seravezza. Ha fatto per più di vent'anni l'addestratore di cavalli e l'istruttore di equitazione, poi il fotografo e poi il barman al Priscilla, il locale di Regina Satariano, Presidente del Movimento di Identità Transessuale toscano, primo nella nostra regione dopo quello bolognese, e anima del Consultorio Transgenere di Torre del Lago.
E vola spedito come un jet quando deve raccontare quel che ha vissuto e quello che si aspetta dalla prima di una serie di operazioni che le permetteranno di diventare uomo. Capelli corti, una leggera barba, camicia, golf blu e jeans, appare un signore come tanti. «Che non mi sentivo nei vestiti rosa che mi metteva mia madre l'ho capito a tre anni - racconta - quando mi infilavo nelle mutande le palline da tennis per assomigliare a mio cuginetto. A nove la situazione era chiara anche ai miei. Le reazioni? Non proprio alla Montessori. Botte da orbi, due giorni di seguito chiusa a chiave in camera senza cibo, con mia sorella che mi portava i biscottini di nascosto e mi diceva: smettila, che papà si arrabbia e mamma si sente male. Lei faceva danza, era perfetta. Io giocavo a pallone, spaccavo i vetri, facevo equitazione e a scuola ero un disastro: insomma una tattica completa per attirare l'attenzione. A undici anni hanno trovato la lettera di una compagna di scuola e lì è crollato il mondo. Mio padre voleva buttarmi fuori di casa, a quell'età, ma per fortuna c'erano le nonne, ora purtroppo mancate tutte e due, che mi hanno aiutato. A ventisei anni ho detto basta di gonne imposte e fidanzati ventilati continuamente e sono venuta a vivere in Toscana, perché i miei nonni erano di qui. Ho insegnato a Pisa, Migliarino, Livorno, Siena. E ho frequentato spesso anche ambienti omosessuali, ma trovandomi continuamente fuori posto. Perché non ero lesbica e le lesbiche spesso sono dure, complicate, fragili. Ma erano gli unici ambienti in cui potevo integrarmi, mentre io desidero stare semplicemente fra gente eterosessuale».
Così Lele, dopo la prima trasformazione seguita alla terapia, ha conosciuto Barbara, a Bergamo, separata, due figli, e al corrente della sua situazione. «Non lo nascondo mai - spiega - lo dico subito, voglio chiarezza. Me l'hanno presentata amici, in una circostanza normale. Il cambiamento durerà ancora un paio d'anni, questa è la prima operazione, poi ce ne saranno altre, ma mi sento già arrivato alla meta, sento la strada in discesa. L'unico problema sono i miei: senza di loro mi sento senza un braccio. Prima ogni tanto li vedevo, poco, ma li vedevo: tiravo fuori la seconda valigia, quella con i vestiti adatti, e andavo a Milano. Quando ho annunciato che diventavo uomo mi aspettavo che dicessero: dacci tempo. Macché. Mio padre, maschilista, avvenente, mi ha detto che gli ho rovinato la vita, che denunciava la mia Psicologa e che il permesso per l'operazione lo doveva firmare lui, come se fossi minorenne. Mia madre, che non reagisce e delega da una vita, risponde ai miei "ti voglio bene" tramite sms sottolineando drammatica che "ormai è troppo tardi per ricominciare". Però evidentemente si preoccupano perché mi mandano i soldi: loro con quelli risolvono tutto. Come i biscottini che mi portava mia sorella quando mi segregavano in camera: amore sprecato che non si è mai tradotto in bene, ma ha aggiunto male al male. Ora sono sereno, ho superato i forti momenti di depressione del passato e cerco di vivere la mia vita, come una persona normale. Ho smesso con l'ippica, troppo pesante, e cerco un lavoro tranquillo, adatto alla mia preparazione: mi basta poco, purché l'abbia sudato e sia mio». di Candida Virgone
Vi abbraccio
Marco Michele Caserta
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