Appunti sparsi sulla crisi del maschio. Ultimi decenni dell’Ottocento, società cosiddetta occidentale. La rivoluzione industriale prende piede praticamente ovunque. Meccanizzazione, automatizzazione, fine dell’artigianato, del bracciantesimo e della manualità. Lavorare con le mani, lavorare col corpo, lasciare un segno sulla natura grazie alla propria forza fisica, diventa sempre di più un vezzo, un capriccio, qualcosa di fondamentalmente e definitivamente inutile. L’uomo comincia a lavorare in fabbrica o in ufficio, la sua energia/forzafisica/vigore non ha più sbocchi in cui incanalarsi, modi di esprimersi. La forza virile, la mascolinità, la tempra, la superiorità fisica che era stata una delle giustificazioni più solide del patriarcato e del fallocentrismo– pian piano, pezzo dopo pezzo – perdono la propria funzione, il proprio ruolo all’interno del mondo. Non ha più senso essere forti, virili, mascolini. Tanto, ormai, ci sono le macchine che fanno tutto. E quel che non ha più senso all’interno del mondo – ma che resta, come retaggio nostalgico, abitudine che è difficile dimenticare, rievocazione di tempi passati e distortamente gloriosi – diventa immediatamente posa, esibizione, ostentazione. Nasce così il “virilismo novecentesco”. Così lo chiama Sandro Bellassai, che insegna storia contemporanea all’Università di Bologna, autore del libro L’invenzione della virilità: politica e immaginario maschile (Carrocci, pp. 180, euro 17). Non è un caso, ad esempio, che gli ultimi decenni dell’Ottocento vedono il fiorire di palestre e associazioni di ginnastica. Le prime Olimpiadi moderne sono del 1896. Nasce un nuovo culto del corpo, l’attenzione per lo sviluppo della muscolatura, per creare una macchina perfetta che non serve a niente (proprio a niente: con l'avanzare della tecnologia, il corpo maschile energico tonico, pieno di forza propulsiva, non serve più nemmeno per la guerra). Ecco dunque che, tra gli appunti sulla crisi del maschio, ritroviamo alcune dinamiche che sono caratteristiche della modernità e in cui si inciampa, come un reticolo vischioso, al giorno d’oggi, nella vita di ogni giorno:
1) Si parla troppo di qualcosa quando quel qualcosa non esiste più. O quasi;
2) L’ostentazione di qualcosa nasce quando si ha il dubbio se questa cosa esiste o no.
Ma torniamo a fine ottocento. Viene a mancare la legittimazione della superiorità dell’uomo basata sulla sua forza fisica e intanto – parallelamente, ma mica tanto – si registrano le prime rivendicazioni femministe. E – questa è la cosa importante – non sono più casi isolati, singole eresie, eroismi individuale, ma donne che si organizzano collettivamente, e che sfruttano tutti gli strumenti della nuova società democratica basata sul suffragio universale in cui i media e l’opinione pubblica hanno un ruolo centrale. Femminismo e svilimento della forza fisica. Uno, due. E l’uomo è ko.
Il “virilismo novecentesco” è – dichiara Bellassai al Venerdì di Repubblica – “l’idea di rilanciare i tratti essenziali della virilità: la forza, il coraggio, la disposizione al comando”. Rilanciarli, anche se non hanno più senso di esistere. Rilanciarli come semplice scenografia, buffonata, impalcatura di cartapesta. Ingozzarsi di simboli e di niente più. Simboli di qualcosa che non c’è più. In Italia – continua – un esempio è stato il fascismo. “Il fascismo fa di questo rilancio un programma politico esplicito: vuole ridare autorità alla figura maschile all’interno della famiglia, espellere le donne dal mercato del lavoro, restituire carattere guerriero ai maschi italiani. Gobetti diceva che il fascismo era l’autobiografia della nazione. Io, parafrasando, dico che l’autobiografia della nazione è il virilismo. Basta pensare alle magliette Italians do it better diventato fenomeno di costume con Madonna. Poi ci sono il mito del bagnino romagnolo, del latin lover, una serie di riferimenti più o meno mitologici, più o meno frivoli, ma sempre nella stessa direzione: di un primato italiano dal punto di vista virile”. Negli anni ’60 e ’70, secondo Bellassai, il mito virile italiano si frantuma con l’avanzare sociale, mediatico e culturale del femminismo. Il virilismo diventa materia di critica e opposizione perfino da parte di molti maschi che condividono uno o più elementi del femminismo. Le donne cominciano ad entrare in tutte le sfere della società. Studiano all’università, diventano medici, avvocati, magistrati, fanno politica, assumono ruoli dirigenziali. Adesso, anche se permane una supremazia maschile nei ruoli chiave della società, il virilismo ha perso per così dire la sua “legittimazione retorica indiscutibile”.
Negli anni ’80 e ’90 i maschi sono smarriti, esposti, nudi. Per Bellassai i media i media rappresentano bene questa condizione, con la pubblicità e il cinema, e fa l’esempio del film Full Monty del 1997, in cui un gruppo di operai rimasti disoccupati decidono di diventare spogliarellisti. “I protagonisti sono operai che hanno perso il lavoro e quindi hanno fallito nella loro identità maschile di padri e mariti. Questi uomini sono ormai nudi. E però giocano, con una specie di geniale mossa del cavallo, su questa nudità: si espongono, nudi anche nel loro corpo, allo sguardo femminile. C’è un rovesciamento: si scoprono oggetto del desiderio, non più soggetti desideranti”. A questo si abbina la diffusione, anche in Italia, di riviste come Men’s Healt, che “mostra l'affermarsi di un mercato per maschi in cerca di rassicurazioni. Il latin lover o il bagnino di trent’anni fa si sarebbe vergognato di ricorrere a un pronto soccorso che svela I dieci segreti per farla impazzire a letto”.
Note
1) Sul libro di Bellassai ho scritto una recensione più seria su Libido Legendi (che in realtà è una specie di sintesi/riassunto del libro).