Consapevoli di compiere un atto dissacratorio, fortemente ambiguo in questo periodo di barbarie e di delegittimazione culturale della civiltà europea di fronte a se stessa, e avendo assistito alla vacuità, all’impotenza, all’inconsistenza stabilita, e conseguente, ai puri atti trasgressori, in un’epoca di “fuffa” da proclami, esposizioni universali di “aria fritta”, “di politica della perversione e di perversione politica” (dove ogni provocazione sembra essere fine a se stessa, morente nell’attimo stesso in cui si inaugura, insignificante testimonianza di un novismo effimero), proviamo a parlare di una delle ville vesuviane più conosciute al mondo, la Villa delle Ginestre, al di là del mito leopardiano, e più propriamente come la dissonante Villa Carafa-Ferrigni a Torre del Greco.
Oltre ad aver ospitato una delle persone più tragiche e angoscianti della poesia europea, l’importanza della Villa Carafa-Ferrigni proviene dal suo originale lavoro architettonico di rielaborazione di un passato decadente, legato alla dominazione spagnola, in un peculiare esempio di laboriosità dialettica del Miglio d’oro, e della sua teoria tardo settecentesca.
La Villa delle Ginestre ci permette, ancora una volta, di considerare il vesuviano come un’atlante della memoria europea (A. Warburg), un codice atlantico e anacronistico (G. Didi-Huberman) di citazioni “proteiche”, immagini strutturali, che abitano l’immaginario e il simbolico dell’ultima modernità, a cui noi oggi stiamo ritornando a guardare criticamente, affinché un rinnovato rigore per il racconto del passato possa nuovamente sussurrarci, e significarci, un reale, che per definizione resiste a qualsiasi appropriazione di senso.
Per quanto la Nostra appartenga al Miglio d’oro, essa possiede una dignità propria, autonoma, una dimensione specifica, e nello stesso tempo integrata nella storia e nella natura dei luoghi. Quest’ultima si ergeva alle origini alle pendici selvagge del Vesuvio, in una tenuta enorme, oggi ridottissima nella sua totalità. Il “terribile Vesevo” fa da sfondo e palcoscenico a un’artificio razionale, umano, oggi allestito secondo vesti neoclassiche e “zuccherine”. Essa oggi si segrega in maniera violenta dalla sommità del Colle dei Camaldoli di Torre del Greco, eppure dialoga e testimonia attraverso la sua dialettica con tutto ciò che lo circonda. Essa appare aliena non in relazione ai vicini scavi archeologici di Ercolano e Oplonti ma rispetto agli abusi edilizi della città tardo moderna.
Nella planimetria quadrangolare e nei colori a volte assoluti, altre volte stemperati, parla un senso stratificato da linguaggi che ricoprono un arco temporale superiore ai 2000 anni di storia. Il Settecento napoletano si sottolinea come il nodo borromeo più adatto a sintetizzare l’aufhebung (oltrepassamento dialettico) di un tempo che si superava pur rimanendo in se stesso, nel suo inizio. Un po come ai giorni nostri la Villa ci testimoniava non tanto se stessa ma le trasformazioni che accadevano intorno, e attraverso, se stessa. Oggi come Centro culturale polivalente, in passato come casa del mecenatismo vesuviano, la Villa delle Ginestre con la sua aura agisce un’esperienza della “soglia”, ormai scomparsa tra noi, e permanente ancora solo nel confine tra la veglia e il sonno, o tra la vita e la morte.
Grazie al canonico, teologo, e Vicario capitolare dell’Arcidiocesi di Napoli, Giuseppe Simioli, agli inizi del Settecento fu ridisegnata come un luogo di ritrovo e di relazione per le più belle intelligenze vesuviane ed europee, tra cui ricordiamo, uno dei ministri di Carlo VII e Primo ministro di Ferdinando IV di Borbone, Tanucci e l’architetto Luigi Vanvitelli. Nell’Ottocento la Villa passò alle proprietà Ferrigni e dei Ranieri che ne proseguirono l’ispirazione e le aspettative. Come una “diplomatica da pasticceria” si eleva su due livelli, il primo è incorniciato su tre lati da un portico con colonne doriche, neoclassico a partire dal 1907, mentre il secondo da una terrazza panoramica, la quale, con le spalle coperte dal Vesuvio, si rivolge alle acque profonde del Golfo di Napoli, alle quali non possiede nessuna discesa diretta (come invece la gran parte delle ville del Miglio d’oro). Grande è il cortile di pietra lavica e cotto, ottimo fondamento “teatrale” a una facciata essenziale, ricca di simmetrie tra portali e finestre, e un giardino di tutto rispetto e di leopardiana mnemosine.
Il progetto che dal ’62 la voleva patrimonio statale, e il concatenarsi di espropri che sino ai giorni nostri l’anno riportata ai precedenti splendori architettonici e culturali, ritrova nella realtà concretizzata dall’Ente per le Ville vesuviane una inaspettata coerenza con il suo finalismo originario, e cioè rimanere un laboratorio per la lettura, la destrutturazione e la riscrittura della prosa di quel mondo che la abita, e l’alimenta. Per questo e altro che la Villa Carafa-Ferrigni, detta delle Ginestre, acquisisce importanza nel Miglio d’oro; dunque addirittura non tanto per il suo valore architettonico, considerevolmente minore rispetto alle altre Ville, ma soprattutto per la sua capacità di catalizzare le energie del territorio.
Indirizzo: Via Villa delle Ginestre
Stato: visitabile, anche nelle collezioni museali stabili, dal mart. alla dom. dalle 10.00 alle 13.00, con un ingresso di 3.00 euro.