Nato a Corneto Tarquinia (oggi semplicemente Tarquinia) nel 1887, figlio illegittimo (e non riconosciuto all’anagrafe dal padre) del gestore del café della locale stazione e dell’umile Giovanna Caldarelli, battezzato col nome di Nazareno, Vincenzo Cardarelli dovette sperimentare fin da piccolo il senso di non appartenenza e di emarginazione. Vista l’incapacità della madre di prendersi cura del figlio, venne preso in tutela dal padre e dalla di lui moglie; la matrigna fu l’unica persona capace di trasmettere al futuro poeta un certo calore familiare. Ma alla sua morte, non potendo il padre badare al figlio, il piccolo venne affidato di famiglia in famiglia, senza mai subire disagi materiali, ma crescendo in assenza di stabilità familiare. Come se non bastasse la complicata situazione derivata dalla sua nascita fuori dalle convenzioni, tanto tenute in conto nella profonda provincia italiana dell’epoca, una menomazione al braccio lo fece tendere all’isolamento fin dall’infanzia, onde evitare lo scherno dei suoi coetanei. Compì studi irregolari, per volontà del padre limitati al minimo indispensabile per essere avviato al commercio. Sentendosi dentro la vocazione alla cultura e all’arte, ad appena 17 anni si trasferì a Roma, arrangiandosi con vari lavoretti e sopperendo al deficitario curriculum di studi con febbrili letture. A Roma, si avvicinò alla causa socialista e riuscì a trovare lavoro all’Avanti, prima come correttore di bozze e successivamente come critico teatrale. Non seguì la redazione del giornale socialista nel trasferimento milanese, ma decise di rimanere a Roma, avendo iniziato ad acclimatarsi all’ambiente culturale capitolino.
Ben presto, però, decise di trasferirsi a Firenze, allora teatro di una vita culturale in fermento che dettava l’agenda al resto d’Italia. Qui, iniziò a collaborare con alcune riviste letterarie, tra le quali quella di riferimento della nuova poesia italiana, La Voce, allora diretta da De Robertis. Nel 1916 pubblicò I Prologhi, raccolta di prose e poesie, in cui rivelò il suo originale approccio alla letteratura, tra memoria e polemica culturale, alla ricerca di una sintesi tra intellettualità organica e smarrimento esistenziale, nella quale la forma, in quanto espressione della personalità, si collegava alla sostanza senza soluzione di continuità. Tra i riferimenti letterari di questo primo lavoro, un posto di primo piano spetta a Baudelaire e al secondo ottocento francese e alla nuova tradizione italiana, costruita sull’asse Leopardi-Pascoli. L’approfondimento dell’opera da prosatore del grande recanatese, lo Zibaldone e le Operette morali, portò a maturazione lo stile di Cardarelli, in un classicismo antiretorico capace di coniugare la corposità delle parole con la fluidità dei versi, lo spirito filosofante con la prosa d’arte. A testimoniare di questa maturazione, la pubblicazione nel 1920 della seconda raccolta di prose e liriche, Viaggi nel tempo, ma soprattutto la fondazione della rivista La Ronda, avvenuta l’anno precedente a Roma, destinata a recitare un ruolo di primo piano nella cultura italiana che si apprestava al ventennio fascista e a contribuire non poco alla riscoperta della prosa leopardiana, interpretata nel segno di una modernità capace di comprendere in nuce la morale nietzscheana.
La coerenza a queste premesse segnò il resto della sua attività letteraria, sempre sospesa tra emarginazione e organicità sociale, rigore classicista e rinnovamento costante, pensiero ed emozione. I titoli più significativi sono: Favole e memorie (1925), Il sole a picco (1928, vincitore del Premio Bagutta), Giorni in piena (1936), Il cielo sulle città (1939), Solitario in Arcadia (1947), Villa Tarantola (1948, vincitore del Premio Strega), oltre a varie raccolte antologiche delle sue poesie. Poeta solitario, ai limiti dell’asocialità, eppure brillante conversatore capace di assumere un ruolo da protagonista nella letteratura italiana della prima metà del novecento, Cardarelli ha fondato la sua poesia sulla memoria, ma senza trasporla in un orizzonte mitico; piuttosto, facendola emergere razionalmente, senza ambizioni consolatorie o subliminali, ma come atto esclusivo di testimonianza di una lacerazione congenita accettata con fatalismo. Il mito, piuttosto, è la terra natale, Tarquinia e l’Etruria come un’età dell’oro dell’appartenenza perduta per sempre ed eternamente cercata; oppure, il mito sta alla base della sua iniziale adesione al fascismo, nel leggere nella metafisica dei simboli fascista il ritorno a un’Arcadia liberata dall’accademia, in una visione bucolica illuminata da una rinnovata ed emancipata coscienza, capace di cogliere l’essenza delle cose. Una trasposizione mitica, a ben vedere, che riguarda anche la tematica del viaggio e la ricerca di cristallizzare ciò che è più mutevole, come i mesi e le stagioni, o l’essere umano, specie quando s’incarna in un’adolescente impaziente di vita.
Poesie di Vincenzo Cardarelli