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È una ferita molteplice e complessa quella raccontata nel romanzo d'esordio; inferta dalla presa di coscienza dell'orrore della guerra, del dominio incontrastato dell'ipocrisia, dalla scoperta della perversione e dalla delusione politica. Profondissima quest'ultima per uno scrittore che, di là dall'adesione a un'ideologia storica, ha sviluppato un «criticismo etico» (come ebbe a definirlo Di Legami1) di forte impronta militante. Se la speranza in un progresso costruttivo viene meno definitivamente, l'unica strada che si apre all'adulto è l'esilio. Dalla propria terra; metaforicamente, dalla possibilità di partecipare al processo di emancipazione da un destino che conferma la sua astorica immutabilità. Ché se formalmente La ferita dell'aprile si colloca nell'ambito del genere autobiografico, di formazione e storico (o «storico-metaforico», secondo una definizione proposta a più riprese dallo stesso Consolo), nella sostanza racconta di un esilio che esclude ogni ritorno, pure sentito come irrinunciabile. Ed ecco allora la ferita riaprirsi, sublimarsi in arte e alimentare una volontà di resistenza che non si vuole sconfitta e decide l'agonismo proprio della narrativa consoliana. Perché senza radici non vi è identità, né privata né collettiva. Non vi è dunque civiltà. Alla cui costruzione lo scrittore non intende rinunciare. E perché, se non si torna alle radici, viene a mancare il motivo a ogni agire. Dove le “radici” non sono solo il passato privato e storico; anzi sono in primo luogo il passato delle forme linguistiche, delle intonazioni, dei ritmi che a quel passato appartengono e che quel passato restituiscono. Le forme della scrittura allora, tese espressionisticamente, racconteranno e insieme saranno la memoria; urleranno la rivolta contro l'azzeramento del passato e inciteranno a un risveglio coscienziale. Nel primo romanzo (già espressione di una personalità originale, nel panorama culturale che vede nascere la Neoavanguardia e imporsi progressivamente un postmoderno destrutturante e ludico), accade dunque che l'adulto ripercorra a ritroso la sua vita fino a ricongiungersi con il sé adolescente di cui rivive le vicende, ripronuncia la lingua, ritrova il mondo e le sue voci. Proprio lo scarto creato dalla distanza è il motore della spinta al recupero, che conduce a riassaporare le parole perdute, dimenticate, espulse dalla memoria, cariche del desiderio, della nostalgia (oltre che dell'ironia, necessario antidoto alla disperazione) dell'esiliato. Parole che sono ora, per l'adulto lontano e colto, una riconquista personale ma soprattutto – inevitabilmente – letteraria: in un dettato segnato dal plurilinguismo che caratterizzerà tutta la produzione consoliana, il dialetto è rivissuto nella sua vitalità orale e gestuale ma anche come segno carico di storia e civiltà. Tanto più che dialetto e italiano aulico e arcaico si intrecciano e sovrappongono fino a confondersi in un'ambiguità preziosa e raffinata, quando la forma dialettale coincida con aulicismi e arcaismi della lingua nazionale. E la dimensione orizzontale della scrittura si verticalizza. La parola è un vortice che affonda le sue profonde e insondabili radici in un passato denso di stratificazioni e interscambi culturali per esplodere, sensuale e vertiginosa, sulla pagina scritta. E a tendere la prosa ulteriormente, ecco la plurivocità che, sulle orme di Gadda e della tradizione siciliana (in primis dell'inaggirabile Verga), drammatizza il narrato (frequentissimi i discorsi indiretti e diretti liberi) esaltando la plasticità e la gestualità della parola e della voce che la pronunciò. Lo spessore del tessuto linguistico e la vivacità del discorso narrativo si innestano inoltre in una fitta trama ritmica che solo in parte riproduce il movimento sintattico-intonativo dell'oralità dialettale. Sono rime, assonanze e consonanze, allitterazioni, versi canonici incastonati nel dettato prosastico, ripercussioni di cadenze generatrici di echi, calati in strutture sintattiche rigorosamente organizzate e retoricamente elaboratissime. Memoria naturale e memoria culturale, di nuovo. Basti leggere l'incipit: «Dei primi anni che passai a viaggiare mi rimane la strada arrotolata come un nastro, che posso svolgere: rivedere i tornanti, i fossi, i tumuli di pietrisco incatramato, la croce di ferro passionista; sentire ancora il sole sulla coscia, l'odore di beccume, la ruota che s'affloscia, la naftalina che vapora dai vestiti. La scuola me la ricordo appena. C'è invece la corriera […].»2 L'autore siciliano ha già trovato la sua strada, segnata da ritorni e ancoraggi nella forza e nelle ferite della memoria. Così è nel Sorriso dell'ignoto marinaio (1976) e in Retablo (1987), che della prima fase del neobarocco consoliano rappresenta la sintesi e l'acme. Si scava nella storia, nel Sorriso, in nome di un impulso profondo all'azione civile. Si rivisita infatti la rivolta di Alcara Li Fusi del 1860 (di quella di Bronte avevano già scritto Verga e Sciascia). Leggiamo l'incipit: «E ora si scorgeva la grande isola. I fani sulle torri della costa erano rossi e verdi, vacillavano e languivano, riapparivano vivaci. Il bastimento aveva smesso di rullare man mano che s'inoltrava dentro il golfo. Nel canale, tra Tìndari e Vulcano, le onde sollevate dal vento di scirocco l'avevano squassato d'ogni parte. Per tutta la notte il Mandralisca, in piedi vicino alla murata di prora, non aveva sentito che fragore d'acque, cigolii, vele sferzate e un rantolo che si avvicinava e allontanava a seconda del vento.»3 Prima, nel non detto omesso a favore di un esordio in medias res, era il viaggio (del Mandralisca e dello scrittore). Ora è l'approdo – in seguito al quale avverrà la maturazione civile del protagonista e dopo il quale lo scrittore, risalito dallo scavo faticoso nel passato, può iniziare il suo racconto che è recupero memoriale – in un ambiente scosso e sferzato da una natura perturbante, inquietantemente viva, percepita da una sensibilità barocca che prova timore e stupore insieme di fronte al movimento incessante, imprevedibile, leopardianamente «formidabile»4 del cosmo. Ma, salvati dalla sua azione distruttrice, si accampano la storia e il coinvolgimento militante nella persona dell'aristocratico illuminato Enrico Pirajino di Mandralisca, portavoce degli insorti rinchiusi nel carcere a forma di spirale. Spirale che è «enigma soluto, falso labirinto, con inizio e fine, chiara la bocca e scuro il fondo chiuso, la grande entrata da cui si può uscire seguendo la curva sinuosa ma logica»5; in cui si può, anzi si deve sprofondare per righermire il passato e risalire poi in uno scatto vigoroso della fantasia creatrice, nella consapevolezza che solo di un tentativo di scuotere le coscienze si tratta. Modello antropologico è il Ritratto d'ignoto di Antonella da Messina (opera recuperata dal Mandralisca a Lipari), sulla cui tela spicca il sorriso emblematico e ironico necessario a tollerare (e dire) ciò che lo sguardo «acuto e scrutatore»6 ha visto; espressione positiva di equilibrio, saggezza e disincanto, proprio dell'uomo che può decidere se intervenire nella storia in nome di un ottimismo della volontà o se limitarsi a osservare, arreso al pessimismo della ragione. Non è un caso che, mentre la struttura del genere “romanzo storico” deflagra dichiarando la relatività di ogni ricostruzione storiografica, si acutizzi il bisogno di «risacralizzare il linguaggio, di restituirgli memoria, tono e modulazione di poesia»7. L'iperletterarietà della prosa è specchio della spinta ad agire: recuperare il passato è, per lo scrittore, la prima forma di intervento. Ma c'è altro, anche. Tutto perennemente si muove nel cosmo, come sa bene chi è di paesi di terremoti ed eruzioni, conosce le sinuose architetture della Val di Noto che paiono voler riprodurre e così assecondare i sommovimenti temibili e improvvisi di una natura tanto più potente dell'uomo, e crede sia possibile affrontarla solo mimandone i tremori e gli urti. La trama fonico-ritmica diventa mimesi del sisma cosmico, storico e individuale, di quell'«incessante cataclisma armonico»8 di cui è afferrata e sfruttata la tensione nella direzione neobarocca che sfocerà in Retablo, il romanzo che rovescia la «praxis realistica» della letteratura siciliana (secondo Sciascia9) in forza di una radicale sperimentazione delle strutture romanzesche, di una prosa “fantastica” ricreata per suoni, lemmi, sintassi ardita e ritmi pervasivi e attraverso la riconiugazione del tema consoliano del viaggio. Viaggio di sospensione dalla vita e dalle delusioni d'amore, e di fuga dalla dimensione orizzontale e lucidamente combattiva della storia. Il pittore settecentesco Clerici si rifugia nella contemplazione quieta delle rovine siciliane, che ritrae e proietta in una dimensione mitica, ingannevolmente eternizzante, utopica. La storia violenta fa capolino ancora, feroce, ma lo sguardo è subito distolto e a dominare è la natura. Come domina il romanzo Rosalia, figura ambigua e inafferrabile che ha i tratti dell'amata di frate Isidoro e della Teresa Blasco per cui soffre il pittore; che ha il nome della patrona di Palermo e della donna amata dal brigante Sammataro. Lei che è «la Rosalia d'ognuno che si danna e soffre, e perde per amore»10; per un dolore d'amore a cui si soccombe infine, unico sollievo la scrittura sospesa dell'effusione lirica, che ammalia e stordisce e rende sopportabile una pena atroce al punto da rendere impossibile il sorriso dell'ignoto. Non resta che l'abbandono al ritmo dell'«anarchia equilibrata»11 dell'universo di cui è ancora figura Rosalia, essenza abbagliante e irrazionale di un universo in metamorfosi incessante. Ritmo che è, però, ancora, memoria. Come lo sono le parole. Perché anche quando si fatichi ad affrontare la morte e la barbarie, sempre è iscritta la necessità della memoria nella prosa consoliana che ne fissa, per quanto possibile, la preziosità e insieme la labilità. Forse Retablo allora non è sospensione pura. È piuttosto il grido più urlato e la più sofferta dichiarazione che la memoria è l'unico ancoraggio nell'instabilità dell'esistenza e la sola risorsa capace di salvare dallo sprofondamento definitivo nell'inciviltà. 1 F. Di Legami, Vincenzo Consolo. La figura e l'opera, Marina di Patti (ME), Pungitopo, 1990, p. 49. 2 V. Consolo, La ferita dell'aprile, Torino, Einaudi, 1977, p. 3. 3 Idem, Il sorriso dell'ignoto marinaio, Torino, Einaudi, 1992, p. 3. 4 Latinismo (“terrificante”) associato allo «sterminator» Vesuvio nella Ginestra, fonte di riflessione ed elaborazione per molti scrittori siciliani, a partire da Verga. 5 V. Consolo, Il sorriso dell'ignoto marinaio, cit., p. 117. 6 Ibidem, p. 6. 7 Idem, Il poema che non c'è, in R. COTRONEO, Tangentopoli è un romanzo?, in «L'Espresso», 7 febbraio 1993, p. 96. 8 Idem, Lunaria, Milano, Mondadori, 1996, p. 84. 9 Così nel risvolto di copertina di Retablo. 10 V. Consolo, Retablo, Palermo, Sellerio, 1990, p. 66. 11 Idem, Lunaria, cit., p. 84. [Articolo pubblicato sulla Webzine Sul Romanzo n. 4/2013, La forza della memoria]
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