Adesso in caduta friabile
arriva neve scarsa
argento di pochi denti, parole raccolte
in un germoglio freddo
se il perpendicolo dell’Orsa guasta il vino
e non c’è quiete, nessuna, per le madri.Ci hanno detto di tornare
e avere fiducia, un’ostinazione
taciuta con la forza che ferisce il ramo
e lo giustifica alla zolla.
Chi non ha seme nelle ossa sente allora
un figlio invisibile salirgli al viso
gridare che domani
ha fiato questo attraversare
ha respiro, è santo come la terra
offrire cibo e sterminio,
fare il proprio dovere.
***
Le voci della notte, la calca
che inudibile sorvola l’acqua
scura, per vie umbratili vibra
dalla sponda alle luci, ai muri e
li trapassa, fino alle case, a noi che
la percepiamo appena dopo,
ad apparecchio acceso; le voci
mai incrinate, mai stanche, fiduciose
che qualcuno le ascolti nel fervore
che precede il sonno e cola al vacuo
conforto dei volti senza storia, banditi
dal perenne presente del mattino:
chiamarle analogia, riposo, quasi
una radio, un dio che ricompone
l’unanime tessuto dei dispersi.
***
Me li rivedo, immersi nel chiarore, le spalle
a una canicola di pioppi, un’erosione
salmastra sulle sagome: agosto, quasi trent’anni fa,
la discussione per un guasto al motore.
Dove siete? È aprile,
oggi, c’è il senso di una tregua
inconcludente, per l’acume che resta
sotto l’unghia del tempo breve.
Riapparirà la pista, come senti in una
pulsazione l’acqua cogliere il ghigno
calcinato del sale, svanirlo al largo di una morte illusoria:
là, verso Mestre e i suoi stabilimenti
la laguna un artiglio di sirene, una memoria
amniotica, giù, a oriente, a Marghera riversa
in un abbraccio di canali e vene.
Così passa la cruna la sera.
***
Lascaux, adesso
Respira nella luce. Così lo ossessiona
la figura stellata di certe erbe nei campi,
tanto simili a dita che si piegano
raggianti, quando gioia trabocca nella donna
o la violenza della caccia esorta.
Ma ora immerge la mano che nei sogni
torna ignota ed arborea, stellata, come l’erba,
fin dentro il buio la segue perché guida
e sostanza, riverbero dell’altro,
corpo che vuole sorgere, parlare.
Allora avverte l’avo alzarsi in piedi:
l’avo sogna la razza, nel sopore
parla al morire, alla lenta crisalide,
al sibilo dell’erba quando il bisonte è in fuga
e la freccia lo cerca per revocargli il mondo.
Al vento, anche se tace nella grotta.
È accanto alla visione silenziosa.
Eppure fuori il giorno resta chiaro, la luce
mobilissima e alta sulle fronde, e già da molto
ciò che esiste ha un nome.
I
Un umido di talpe, una figura, qui. Dove nasce, ogni ricordo trova corpo, simmetria. Si prepara. Così ci sono piogge, l’albero della folgore fruttifica. Tutto il corpo matura, intima appello, un nido. Che cosa elenca, il corpo, mentre cade? Inventaria salvezza, commercio con potenze, la distanza degli occhi dal fuoco. Poi, senza preavviso, in una sola sera un umido mortale gli cola in bocca: lui ne diventa l’ostaggio terrestre. Ed è pronto, si alza. Ma è già divelto, un fiocco, cenere che s’avvita sul rovescio del tempo.
II
Ora vive di traffici, una zoppia recente lo rivela malato. Non se ne cura: in lui cova l’emblema di una razza, lingue ignote lo parlano. Da tempo ama scomparsi, ritenuto com’è in un’età cattiva: molto temuto, ma non per se stesso. Dal remoto giardino della casa natia, da cui spia un’improbabile esistenza, la sua assenza è notata da coloro cui il grano selvatico impose il nome del primo della specie. O l’altro nome, due sillabe, sussurrate di notte all’orecchio di Giacobbe.
III
(P.F., in memoriam )
Emana dalla notte una neve abissale. Prima d’essere ucciso, non più lui ma qualcuno, infinitato sul suo giaciglio imbandisce una visione, l’afferra come un pane. Vede gente affaccendata o oziosa accalcarsi a una riva; ode grida e richiami, schiocchi di piedi sulla risacca. Ignorando di formare una folla ciascuno pensa a sé, al massimo all’uno o ai due cui s’accompagna, discutendo a voce alta o più spesso tacendo. Passeggiano, si arrestano: cosa hanno colto? Riscossi, enunciano sciocchezze, malcerte convinzioni, desideri. Gialla una radiazione ne imbeve i corpi pallidi. Pietà li avvolge, che investe anche chi guarda. Ma chi? Nessuno osserva. Avviluppa quei corpi febbrili il raggio di un pianeta ignoto. Poco a poco la folla si raddensa, si rimescola e gonfia. Quanto più è scomposta, tanto più un’energia la accresce. Solo dall’acqua, in cui nessuno nuota, tutto questo è visibile. Dalla riva intanto, con rozze reti e canne, muti tra le creature i pesci vengono catturati e divorati crudi. Rigettati in acqua, i loro resti riacquistano la carne, rivivono per essere pescati, mangiati, ancora e ancora, in continuo.
Note biobibliografiche:
Vincenzo Di Maro è nato nel ’69 a Calvizzano (Na) e vive a Varese. Ha pubblicato: “La costanza dell’inseguito” (Nuova Editrice Magenta 2008, selezionata premio Bagutta, selezionata premio San Pellegrino); “La fine dell’opera –frammenti per un coro” (Lietocolle 2011), “Mitografie” (Kairòs, 2012, con Casulli, Ferraris, Vetromile). Nel 2012 ha vinto la terza edizione del premio Confcommercio Milano “Poeti e scrittori in Lombardia” per la poesia inedita. E’presente nell’antologia della poesia italiana “Frammenti imprevisti”, (Kairòs 2010), consulente editoriale della Nuova Editrice Magenta.
Poesie, recensioni e interventi critici sono apparsi negli anni su “Poesia”, “Liberazione”, “Poeti e poesia”, “La Prealpina”, “Poliscritture”, “Grandangolo”, “Varesereport” e altri periodici. Da qualche mese tiene “Vie di Carta”, rubrica di libri da leggere o rileggere, sul sito http://www.Estro-versi.org.