Il Teatro EuropAuditorium di Bologna porta sul palcoscenico una delle più affermate star della commedia all’italiana, Vincenzo Salemme, che, affiancato dalla sua strepitosa compagnia, interpreta e dirige Il diavolo custode. Il tema proposto affonda le radici in una feconda collezione di libri, film e rappresentazioni che hanno provocatoriamente fatto assurgere a protagonista l’uomo, insoddisfatto della propria vita, tentato dall’offerta del diavolo di vendere l’anima in cambio di fama, ricchezza e successo (Faust su tutti). La chiave di lettura scelta da Salemme è però assai meno inquietante e drammatica, quasi minimalista, il diavolo tentatore ha infatti le sembianze quasi dimesse prima di un avventore d’un bar, poi di un improbabile postino, infine di un prezzolato professore, e si pone, quasi in punta di piedi, offrendo sì una seconda chance, ma da ponderare con attenzione, prospettando tutti i rischi che si presenterebbero abbandonando una vita certamente problematica, ma ancora raddrizzabile. L’inferno si manifesta, in un improponibile “Bar Vespasiano”, con le sembianze di un diavoletto che parla un linguaggio incomprensibile (omaggio forse al Dante di “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”), che suscita più stupore e riso che non spavento e timore, una sorta di macchietta che sdrammatizza ulteriormente il ruolo del suo padrone che, per modi e parole, sembra più un “diavolo custode” che non un tentatore e divoratore di anime.
Salemme torna dunque al suo primo amore, il teatro, scrivendo ed interpretando, con una verve contagiosa, questo spettacolo con cui prova a portare in scena una specie di “training autogeno” teatrale tutto da ridere, con un diavolo-analista che aiuta il protagonista, ma, anche, e soprattutto, il pubblico a guardarsi dentro l’anima. Così, come suggerisce l’attore, la cosa migliore da fare è proprio porre delle domande a sé stessi, senza paura, né cattiveria e magari con il sorriso sulle labbra: «Ho voluto fare uno spettacolo che vi facesse venire voglia di parlare di più con voi stessi, col diavolo che è in voi senza averne tanta paura, perché se quel diavolo che è in voi è forse solo un povero diavolo, non può farvi del male. E magari vorrebbe darvi una seconda possibilità. Perché, diciamoci la verità, ci lamentiamo spesso con l’universo intero e con la vita che sono stati troppo crudeli con noi. E allora immaginiamo che un giorno il nostro diavolo custode salga sulla terra e venga a dirci: vuoi tornare a nascere e ricominciare daccapo? La vuoi la seconda possibilità? Ma sei sicuro che ne valga davvero la pena? Ce la farai a stare meglio?». La commedia si dipana con un ritmo frenetico, senza pause e tentennamenti, su due piani distinti ma comunicanti, la realtà e il ricordo, ingredienti di quella sorta di seduta psicanalitica pubblica, in cui ritroviamo il paziente-protagonista, l’integerrimo e “scurnacchiato” Gustavo, barista onesto di cui tutti s’approfittano (il garzone di bottega, la figlia trendy, la moglie dispotica, il fratello prete di morale non certo integerrima), il diavolo custode, sotto le sue varie mentite spoglie, e il giudice, rappresentato dagli astanti, a loro volta coinvolti in scena in una sorta di teatro-verità in cui lo spettatore cessa di essere mero fruitore passivo, per assurgere al ruolo di partecipe deuteragonista.
Si ride, e lo si fa, molto e di gusto, su situazioni che tuttavia fanno riflettere e sulla società attuale, con i suoi vizi e vezzi, ma, anche, ed in particolare, su noi stessi, sul nostro io, abituato ormai ad inseguire chimere da altri suggerite, che finiscono per stressarci e farci perdere di vista la realtà ed il giusto rapporto con noi stessi. Tutti temono il fallimento, il non essere all’altezza degli standard richiesti, o dei cliché imposti, da una società ipercompetitiva e perennemente di corsa, e finiscono per autocommiserarsi attribuendo agli altri la colpa dei propri insuccessi, evitando accuratamente di fare invece un sincero mea culpa. Ebbene è proprio questo il messaggio catartico che vuol farci passare l’autore mettendo in scena questo spettacolo: cerchiamo le risposte dentro noi stessi perché è solo lì che risiedono le ragioni dei nostri fallimenti, ma anche le leve dei nostri successi. Il monologo finale chiude la pièce tentando l’ultimo esercizio terapeutico: non è più tempo di ridere alle battute dei protagonisti, ma occorre riflettere sul perché oggi siamo tutti così insoddisfatti e così poco propensi a piacerci! La disamina del nostro io imperfetto passa dunque dalle differenze di genere all’incapacità di essere padroni del proprio tempo, dalla routine dei comportamenti al rispetto degli standard attesi, dalle paure che finiscono per uccidere le certezze alla incapacità di agire per realizzare i propri sogni più intimi. Gli scroscianti, calorosissimi, applausi finali sono il giusto e sentito consenso che la platea tributa al gruppo di attori, tutti bravissimi, e, soprattutto, a Vincenzo Salemme, incontrastato mattatore, nei panni del “povero” diavolo custode, che assurge a nostra disincantata coscienza, tentazione positiva verso quel profondo cambiamento che risiederebbe nel “riappropriarsi” della propria vita e della propria anima.
In copertina: Vincenzo Salemme – Fotografie di Federico Riva