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Peggio ancora gli era andata quando aveva pubblicato il suo capolavoro, Furore. A Salinas, sua città natale, si scatenò la caccia al libro, ma solo per dargli fuoco sulla pubblica piazza.
Povero John Steinbeck, quanto è stata lunga e difficile la strada della sua affermazione anche a casa propria. Non in libreria, a dire il vero, visto che ancora oggi è un autore che vende ben due milioni di copie all'anno solo negli Stati Uniti. Ma tra i critici letterari, nel mondo della cultura che conta.
Federico Rampini nel suo San Francisco-Milano (Laterza) ci racconta come è andata. Ed è una storia che merita di conoscere, perché le ragioni per cui oggi anche l'America ha riscoperto Steinbeck sono esattamente le ragioni per cui per tanti anni fu marchiato come scrittore da cui si poteva prescindere. Volete mettere con Faulkner, Fitzgerald o Hemingway?
Troppo facile, tropo sentimentale, troppo datato, dicevano. Soprattutto troppo ideologico: e questa parola è una cartina tornasole. Steinbeck raccontava l'America stracciona, l'America dei morti di fame, l'America di chi lasciava le fattorie del Midwest e si metteva in viaggio per disperazione o al massimo per uno straccio di speranza. Parlava della California prima della Silicon Valley. Ambientava le sue storie tra poveri immigrati, contadini stremati, pescatori.
Come poteva piacere all'America di George Bush?
Ma per gli stessi motivi Steinbeck è uno degli autori riscoperti nell'America di Obama, quell'America che non ha paura degli immigrati e che si riconosce in quell'idea della California, come metafora di una vitra migliore, di un'altra possibilità.
La possibilità per cui oggi stanno lavorando duro altri braccianti, da altri paesi, negli stessi campi dei contadini di Furore. E allora sento come mie le parole di Rampini:
Invece dei bianchi poveri che fuggivano dalla carestia in Oklahoma questi ora vengono dal Messico, dal Guatemala o dall'Afghanistan. Se soltanto potessero leggerlo, loro probabilmente non troverebbero Steinbeck né fazioso, né datato
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