di Francesco Aprile, Giuliano Ingrosso, Teresa Lutri
agosto-settembre 2013
Fondo Verri, Lecce, 11 settembre 2013
Francesco Aprile (reading, poesia verbo-visiva)
Giuliano Ingrosso (suoni, reading)
Teresa Lutri (reading, mime corporel)
Marco Monaco (suoni)
Quentin Yvinec (mime corporel)
Cut-up liberamente tratto dai testi e dalla ricerca di Francesco Saverio Dòdaro
Testo disponibile anche su: http://antonioverri.blogspot.it/2013/09/violazioni-in-marasma-per-francesco.html
Pronto? Pronto, sì. Quest’estate l’acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro.
Quest’estate le rose sono nere.
Quest’estate io parto.
Pronto? Pronto? Pronto? Pronto?
Oh, miei cari, io, io parto. Parto. Vado nell’Osthrakien. Parto. Vado a gettare nel cielo, alla mia innamorata, la freccia d’acero accesa.
Mia cara, raggiungerò il tuo cuore. Alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.
Cessato allarme.
Marasma.
Matà
Matà
Matà
Ma…tà
Cessato allarme. Il bombardamento è finito.
Un giorno qualsiasi, di un anno qualsiasi, su uno scafo qualsiasi. Dal silenzio di quattromila anni, nel grande oceano negativo, piangendo.
Ora bisogna contare i morti.
Recuperare i vivi, sepolti.
La strada, ciò che ne è rimasto, si popola di spettri. Pallidi. Silenziosi. Lenti. Non un urlo, un grido, un pianto.
Qui la morte è come il sole, la luna, il mattino, la sera.
Ospedale psichiatrico. Il viale. Non è proprio un viale, ma lo chiamano così. Tre pini rinsecchiti, un cespuglio di oleandri, senza fiori.
A destra
il padiglione uomini,
a sinistra
il padiglione donne.
Padiglione, sa tanto di Fiera del Levante.
Ma sì,
fiera dell’altro mondo. Dell’angoscia. Della disperazione.
Si vende, si sente, si offre di tutto.
“Mi dai mille lire. Mi dai mille lire. Mi dai mille lire”.
Mi sta perseguitando.
Ha una giacca che sembra un cappotto. I pantaloni che lasciano vedere le calze, rosse. Sono più corti di almeno venti centimetri.
Gli do mille lire. Sghignazza, sorride, va via.
Scende il silenzio. Mi guardo attorno. Tutto è squallido.
Sembra una scena da Dopo il bombardamento. Voglio denunciare. Mi sento rivoluzionario. Il silenzio è rotto da un urlo, feroce, penoso, lacerante: “Mamma”.
Mamma
Mamma
Mamma
Mam…ma
E le possibili rivolte.
I riflettori illuminano la scena. I personaggi. Sento le urla. Il mio cuore s’oscura.
Risento l’eco: “Non rinuncio alle aspirazioni di bambino”.
E penso ai ragazzi. Alla loro purezza.
A chi allatta ancora il proprio puer. Il proprio angelo.
Gli angeli si cercano.
Il sessantotto è fallito. L’immaginazione è fallita.
Voglio tornare al grande vecchio. Al brivido della sua ombra, incontrare i sognatori. La poesia.
Il puer. Ancora la poesia.
Anni sessanta-settanta.
Erano gli anni di piombo.
E della controcultura:
chi pubblicava con editori era un reazionario.
La poesia, manoscritta o ciclostilata, si veicolava o per posta, alla californiana, o per strada: nelle piazze, all’ingresso delle università, dei licei. A volte nelle aule, interrompendo la lezione. Volantinaggio poetico, incursioni semiologiche.
Gli scontri erano frequenti.
Le mazze, le manganellate lasciavano segni.
Al sangue, all’osso.
I miei sono stati devastanti. Trent’anni di sofferenze. E di interrogativi.
Chi sono? Passo lunghi periodi senza memoria, senza passato: senz’anima.
Mi guardo allo specchio: a sinistra il cranio, lucido, con una lunga cicatrice, mal cucita; a destra, ciuffi di capelli, qua e là. Mi faccio schifo.
Ma chi sei? “Un poeta che ha amato, che ama la poesia”, dice la psichiatra.
Ed io ripeto: “Un poeta che ha amato, che ama la poesia”.
Nei momenti di lucidità penso che essere stato sempre in prima linea per affermare la priorità dell’afflato, che aver dato il mio cranio alla poesia, sia stato bello, magico.
Come dare a un bambino, sul prato, il vento, e una girandola. O una carezza.
Come respirare il profumo del grano, quando è verde.
Come vedere sulle Murge, gli alberi in fiore.
Come ricordare il tempo materno. Riascoltare i silenzi. E la voce. Il canto.
La madre, la madre il canto, le Murge in fiore. Fichi e freddo.
Pastore. Vastar. Vastra. Vasto. Vastità. Il re della Murgia.
Un secchio di resti per il cane. Povero cane.
Il re della Murgia. La castigata per cavallo.
Lana morbida e calda calda calda. Calda.
Le mani fredde. Le mani calde.
Le mani gelate. Tante mani gelate.
L’occhiello è al metano. Il catenaccio chiude l’angoscia.
La ricetta la mmane, a maggio.
Il boccone del re: un fiorone svuotato, poi riempito di latte, ed è subito quaglio.
Il boccone del re. Ed è subito sera.
Domani, a sera, bombarderemo la città.
Vendita promozionale. Un camion di soldati morti.
Vendita promozionale. I gelsomini della Murgia.
Le mimose del Serrone. Le stelle, della notte di natale.
Bombarderemo la città.
L’Adriatico s’incendia.
Le rose dell’Adriatico.
Dalle macerie una mano parla. Un cumulo di pietre. Sette piani di pietre.
Una mano che sfiora e poi parla.
La pelle chiarissima. Le unghie bellissime. Le dita bellissime.
La vena sussurra l’amore.
Il tepore di una notte di luna e il silenzio segna l’historia.
Bombarderemo la città.
Ventuno esplosioni.
Ventuno navi.
Ventuno paure.
Ventuno lune.
Ventuno morti.
Ventuno nascite.
Ventuno singhiozzi.
Ventuno solitudini.
E proteste e fantasmi e voci e urla.
Ventuno rose per te. Il tepore di una notte di luna. Il silenzio. I gelsomini della Murgia.
Il castello, la piazza. I profumi della Murgia. La pagina inchiostrata dalla rosa.
rosa rosa rosa
Non può più contenere la disperata disperazione del segno poetico.
Sono illeggibili l’occhio.
Il corpo.
Ma non le labbra di Man Ray.
Nè il suo cielo.
Nè l’infinita infinitudine della sua dolcezza.
ttutto sugli schermi. ttutto.
poi l’eco.
ttutto
ttutto
ttutto
ttut…to
Le risonanze buie del sonno. Imposto. E tutto il malessere. A venire.
Tutto.
Tutto.
Tutto.
Ho voluto capire il tradimento.
Ho parlato con medici, infermieri, parenti.
Ho rovistato cassetti, depositi. Ho smembrato ricordi, coscienze.
Ho interrogato schede, archivi, carte.
Poi ho scritto sulla parete della mia stanza, dal pavimento al soffitto: “Vigliacchi”.
L’ho scritto con il verde.
Un mio amico newyorkese, poeta di frontiera, è rimasto stravolto da quella scritta, pur non conoscendo le spinte che l’hanno prodotta.
Ha detto che è il più bel segno di poesia concreta mai visto. Violento. totale.
Vigliacchi.
A quanta gente è indirizzato quel plurale! Vigliacchi. Vigliacchi!
La stanza era squallida. Dipinta di verde.
Dieci sedie sgangherate.
Un vecchio televisore per le videocassette rock: cinema alternativo.
Fogli sessantottini, ingialliti. Poesia ciclostilata. Poesia minima.
Qualche altro inchiostro.
Sguardi impietriti. Il pallore dei volti mi ricorda i sanatori di una volta.
Sono attratto da un femminile di età indefinibile. Lineamenti aristocratici. Triste.
Gli occhi hanno una profondità galattica. Cerco di raggiungerli. “Da dove vengono, da dove vieni. Tu, devi essere nata il 10 agosto”.
Cumuli di lontananze lungo i suoi gesti, ad accarezzare.
Lungo i Navigli la sera scivolava sulle cose.
Tutto era lento, afono.
La rosa nascosta di Missoni profumava delicatamente la nebbia.
L’ora era ferma sull’oblio.
Addio, pagine, parole amate, gesti ammassati nei depositi, sguardi, primi piani di pelle solcata dal rimmel, di pallore, pallore di cipria.
Primi piani di polvere, di rughe della memoria, dell’anima.
Primi piani di pizzi, di sete, di neri, d’incanti.
Primi piani di rose dischiuse, di petali, di grazia, d’infinita dolcezza, di mari, d’oceani.
Notte delle lune d’acciaio, delle partenze, delle fughe, dell’aquilone smarrito.
Notte dei latrati, delle paure.
Notte della solitaria solitudine.
Notte delle stelle, del Carro, dell’Orsa.
Notte dei treni, delle stazioni, della sete.
Notte dell’antica pietra, della soglia.
Notte della notte.
Primi piani di rose dischiuse.
Di pizzi, di sete, di neri, d’incanti, d’abbracci, di carezze, di baci, di baci, di baci…di baci.
Le lontananze accarezzavano i suoi gesti.
Lungo i Navigli la sera scivolava sulle cose.
Tutto era lento, afono.
Una sirena, d’improvviso, sconvolse la quiete.
La nebbia si diradò scoprendo sui muri labbra, rossi, sete, case e la Scala, il Coro, la Banda, le luci del vecchio canale.
Primi piani di polvere, di rughe della memoria, dell’anima.
Primi piani di pizzi, di sete, di neri, d’incanti.
Primi piani di rose dischiuse, di petali, di grazia, d’infinita dolcezza, di mari, d’oceani.
Notte delle lune d’acciaio, delle partenze, delle fughe, dell’aquilone smarrito.
Sono attratto da un femminile di età indefinibile. Lineamenti aristocratici. Triste.
Gli occhi hanno una profondità galattica. Cerco di raggiungerli. “Da dove vengono, da dove vieni. Tu, devi essere nata il 10 agosto”.
Cumuli di lontananze lungo i suoi gesti, ad accarezzare.
Pronto? Pronto? Pronto?
Lo scirocco soffia sulla malinconia, e sulla pagina violata.
Il giorno più bello della mia vita.
Il profumo della campagna. Il grande camino, ed il corpo bianco, delicato. Profondo: sino all’anima. La casa dell’anima. Tra i ruscelli della morte e le dolci sorgenti del lutto.
Il rumore degli occhi. Quante cose scivolano sulle pieghe clandestine.
Il galletto gira, gira, gira. Lo scirocco soffia sulla malinconia.
Pronto? Pronto?
Pronto? Pronto, sì. Quest’estate l’acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro.
Quest’estate le rose sono nere.
Quest’estate io parto.
Pronto? Pronto? Pronto? Pronto?
Oh, miei cari, io, io parto. Parto. Vado nell’Osthrakien. Parto. Vado a gettare nel cielo, alla mia innamorata, la freccia d’acero accesa.
Mia cara, raggiungerò il tuo cuore. Alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.
Senza chiedere in conto la notte alla solitudine.
Non si interroga la solitudine, la mancanza.
La mia adolescenza è stata musicata dai fischi dei treni, incipit di spartiti mai ultimati.
Le rotaie erano i miei pentagrammi.
Sui pennacchi di fumo delle locomotive scrivevo le parole e lo swing della protesta.
Poi, ho cercato di capire le rughe della sofferenza, della malinconia, il lutto di un adolescente.
Ho interrogato i frammenti platonici.
Ma non c’è l’amore per tutto questo?
Ma non c’è l’amore per tutto questo?
Da sessant’anni m’interrogo. Ma non si chiede alla notte il conto delle solitudini. Delle mancanze.
Pronto? Pronto?
Pronto? Pronto, sì. Quest’estate l’acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro.
Quest’estate le rose sono nere.
Quest’estate io parto.
Pronto? Pronto? Pronto? Pronto?
Oh, miei cari, io, io parto. Parto. Vado nell’Osthrakien. Parto. Vado a gettare nel cielo, alla mia innamorata, la freccia d’acero accesa.
A chi ha voluto l’ammantatura rosa, come missoni.
Il fiore rosa, come missoni.
E la stanza rosa.
A chi ha voluto che curassi la sua malanza con una rosa.
Ho tinto la strada di rosa
Il mare di rosa
Il cielo di rosa
E la pagina, di rosa
Rosa antico
Chiaro
Chiarissimo
Bianco
Bianco memoria
Memoria di rosa
Pronto? Pronto?
Pronto? Pronto, sì. Quest’estate l’acqua ha irrigato i tuoi boschi di vetro.
Quest’estate le rose sono nere.
Quest’estate io parto.
Pronto? Pronto? Pronto? Pronto?
Oh, miei cari, io, io parto. Parto. Vado nell’Osthrakien. Parto. Vado a gettare nel cielo, alla mia innamorata, la freccia d’acero accesa.
Mia cara, raggiungerò il tuo cuore. Alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.
Quando il sole s’imbuca nella sera, ogni parete, ogni muro diventa quaderno per le lontananze.
S’incanta. S’incontra: ombre, respiri, voci.
Mia cara, raggiungerò il tuo cuore. Alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.
In quella prima decade di maggio.
Quando la rugiada bagna le prime rose
un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi
alla decima ora, di uno di questi impossibili millenni.
Testi utilizzati:
Sconcetti di luna, in «Compact Type. Nuova Narrativa», Edizioni Pensionante de’ Saraceni, Caprarica di Lecce 1990
Tracce di un discorso amoroso, in «Diapoesitive. Scritture per gli schermi», Edizioni Pensionante de’ Saraceni, Caprarica di Lecce 1990
Reparto “P”, in «Pieghe narrative», Conte Editore, Lecce 2001
All’ombra del grande vecchio, in «Pieghe narrative», Conte Editore, Lecce 2001
I colombi della clausura, in «Pieghe narrative», Conte Editore, Lecce 2001
Vento, vento, in «Pieghe narrative», Conte Editore, Lecce 2001
Rosa virginale, in «Pieghe poetiche», Conte Editore, Lecce 2001
L’addio alle scene, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Vukovar. 26 ottobre, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Giornalista d’assalto, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
La stanza dipinta di verde, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Il buco nero, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Cadono le ultime mimose, in «L’addio alle scene», Argo, Lecce 1996
Navigli, in «Mail Fiction. Free Lances», Edizioni Pensionante de’ Saraceni, Lecce 1991
Uscita in marasma, in «Carte letterarie», Edizioni Astragali-Eufonia Multimedia, Lecce 2009
Riflessioni. Per Ugo Carrega, in «Disperate del XX secolo», Il Laboratorio, Galatina 1989
Dichiarazione d’innocenza, in «Locandine letterarie», Il Raggio Verde, Lecce 2005
dis/adriatico, in «Spagine. Scrittura infinita», Edizioni Dopopensionante, Galatina 1991
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