È più facile che tutta la carovana dei Re Magi passi attraverso la cruna di un ago con la musichetta del limbo in sottofondo, che qualcuno riesca a parlare dell’Albero Azzurro senza commuoversi. Per questo ho i kleenex vicino la tastiera e non per quello che pensate voi sporcaccioni!
L’Albero Azzurro era un albero bellissimo, frondoso, alto, duro, con il tronco e le foglie blu. Probabilmente era stato concimato col Viagra.
L’Albero Azzurro cresceva fiorente proprio fuori i giardini di Viale Mazzini e ogni tanto il cavallo della Rai ci andava a fare la cacca.
Nel tronco dell’Albero ci aveva fatto il nido un uccelletto di pezza col timbro vocale di un bimbo mai cresciuto, tipo Fabio Fazio, di nome Dodò. Aveva un piumaggio bianco a pois neri, un ciuffo di capelli gialli ossigenati, anche se si è sempre dichiarato biondo naturale, e due dolcissimi occhioni con le pupille dilatate tipiche di chi ha una forte dipendenza da LSD.
Dodò, dopo una cruenta incursione negli studi dello Zecchino d’Oro dove divorò il povero Topo Gigio, divenne per lunghi anni l’idolo indiscusso di tutti i bambini in età prescolare. Almeno fino a quando quella maiala di Peppa Pig non gli fregò i fan e la fama facendolo cadere in depressione.
Cosa succedeva all’ombra dell’Albero Azzurro? Nulla. Giorni interi di nulla. C’era giusto una manciata di conduttori che passavano il loro tempo realizzando lavoretti con carta, colla e colori che tanto nessun bambino avrebbe mai riprodotto perché, diciamocelo, ai bambini non è mai fregato un cazzo di fare lavoretti con carta, colla e colori.
E mentre di giorno i conduttori facevano lavoretti di carta, di notte Dodò quei lavoretti se li rollava e li fumava guardando le stelle, da cui il testo della sigla:
“C’è un posto dove gioca la testa (…)
c’è un posto dove scoppia la festa (…)
l’Albero Azzurro posto di amici, l’Albero Azzurro posto felice”.
Di Marco Improta. All rights reserved