Spring Breakers ***1/2
Presentato a Venezia 69, Spring Breakers (2012) è il frutto della cultura pop statunitense e Harmony Korine non la esalta, anzi confeziona un manifesto duro, violento e allo stesso tempo dolce della generazione post-Britney. La pellicola è un perfetto epitaffio della sopracitata generazione e la scelta di inserire nel cast due icone adolescenziali (Selena Gomez e Vanessa Hudgens) e di farle quasi scomparire sulle “ali” di una canzone della Spears, è un’immagine simbolica ed estremamente significativa. Difatti le bad girls di Korine, muovendosi abilmente tra le feste della spring break e qualche ubriacatura di troppo, cercano il massimo e rischiano altrettanto. Gangster improvvisate in bikini, le quattro protagoniste (anche se diminuiscono sensibilmente di sequenza in sequenza) si avvicinano al crimine con la candida e adolescenziale voglia di trasgredire e rischiare la propria vita. Inoltre c’è lo stile del regista (sincopato, ripetitivo e aderente alla realtà in modo quasi mimetico, quasi come se girasse con una camera a mano all’intero dei party improvvisati nelle camere d’albergo), che nasconde profondità di contenuti raccontati in modo anticonvenzionale. E come se non bastasse si inserisce in tutto questo un convincente James Franco; un gangster-rapper di quartiere pericoloso quanto basta per “rapire” e trascinare in una delirante spirale le spring breakers. Dividendo idealmente il film in due tronconi, Korine affronta feste a base di alcool e droga e il loro “naturale” proseguimento, all’insegna della criminalità. Non vi è un accenno di redenzione e nemmeno di catarsi. Infatti la pellicola si conclude come qualsiasi spring break: ognuno torna all’università. In conclusione si può affermare che Spring Breakers è un gioiellino da ammirare, nel quale la cultura del divertimento deraglia e scivola pericolosamente lungo una china destinata all’oblio. D’altronde «spring break, spring break…forever». Uscita al cinema: 7 marzo 2013
Salvo ***

Poliziesco silenzioso nel quale il Sud sembra il West, Salvo (2012) è lo sfolgorante esordio del duo Piazza-Grassadonia. Cannes lo ha celebrato e apprezzato, mentre l’Italia lo ha inizialmente snobbato (non era prevista la distribuzione) per poi farlo uscire nelle sale in un periodo non propriamente favorevole. Difatti la pellicola ha incassato pochissimo e non ha reso giustamente l’idea del prodotto, che mette in scena una storia lineare, ma estremamente densa di tecnica e bravura registica. Tuttavia proprio il silenzio (contemplativo, allungato in intere scene in piano-sequenza) si rivela l’arma a doppio taglio per i registi, che se da un lato dimostrano una capacità di lavorare sull’immagine e il sonoro come nessun altro, d’altra parte rischiano di affidarsi eccessivamente a questa tecnica, sperando che riesca a sostenere la pellicola e a mandarla avanti autonomamente. La vicenda è ambientata in Sicilia e vede protagonista un killer (Salvo), che dopo essere incappato in Rita (cieca sorella di un giovane boss che deve uccidere), decide di non assassinarla, ma di rapirla. È qui che comincia un percorso di cambiamento, una redenzione inaccettabile nel microcosmo mafioso. La Sicilia, che come anticipato somiglia al West per la sua desolante e desertica atmosfera, è il teatro di una storia surreale e umana, che trasforma una fabbrica in disuso in una galera e che si sofferma su corpi reali, ostentando un’invidiabile padronanza di tempi e spazi. Pur essendo un’opera coinvolgente Salvo fatica ad appassionare fino in fondo, probabilmente per l’eccessiva volontà di rendersi (a tutti i costi) anticonvenzionale e di nascondere, sotto la superficie filmica, accenni neorealistici. Nonostante questo Salvo (annaffiato da una colonna sonora figlia della sottocultura popolare), rifiutando ogni tono noir caratteristico del genere, è un esordio che risolleva il cinema italiano. Sicuramente Piazza e Grassadonia faranno strada. Uscita al cinema: 27 giugno 2013

Ambiguo. Un unico aggettivo descrive perfettamente la pellicola diretta da Mira Nair ovvero l’evento di apertura di Venezia 69. Difatti proprio come il titolo, Il fondamentalista riluttante (The Reluctant Fundamentalist, 2012) è un film vago e di dubbia interpretazione. La regista riflette e si interroga, ma, pur allungando il “brodo”, non riesce a lavare quella sensazione di ambiguità che pervade l’intera pellicola. Ambientato a Lahore, Il fondamentalista riluttante salta indietro nel tempo e nello spazio attraverso le parole del giovane professore universitario Changez. Racconta la sua storia e quel post-11 settembre che si fatica a dimenticare e che lascia dietro di sé lunghissimi strascichi. Tutto ciò viene filtrato e osservato in modo imparziale e lascia libero spazio a diverse e variegate interpretazioni. Ma questa scelta non sempre è la migliore. Anzi, spesso, è una sorta di consapevole e volontario allontanamento dalle cosiddette “patate bollenti”. Sostanzialmente Mira Nair se ne lava le mani e passa oltre. Tuttavia non può non far riflettere una pellicola che offre una doppia esposizione (quella statunitense e quella pakistana, e a volte integralista) su temi come l’integrazione, il reclutamento (e la militanza) culturale e la generalizzazione delle colpe e dei colpevoli. Ma Mira Nair, pur mettendo in scena una buona costruzione narrativa e una convincente direzione artistica, fa crollare il suo prodotto sotto le pesanti macerie dell’ambiguità. E non basta ilsottoplot sentimentale a risollevarne le sorti; anzi distoglie l’attenzione e non approfondisce i temi che la Nair snocciola in modo incontrollabile, ma superficiale. Uscita al cinema: 13 giugno 2013