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Ci sono film che non mi sono mai sentito di consigliare a scatola chiusa. Questo non solo perché sono troppo difficili da capire o altro, ma perché credo che non possano essere visti senza una guida, senza qualcuno che possa ricordare allo spettatore, specie se giovane, qual è il limite fra opera di finzione e realtà. Anche perché ormai siamo in un mondo dove la tristezza e la disgrazia la fanno da padrone, senza contare che la televisione marcia sempre più su quello che è un quotidiano rifornire di disgrazie gli spettatori, fra genitori che ammazzano figli e mariti che uccidono le mogli. Viene così a formarsi un dilemma: come si raccontano le cose? Si può farlo nel metodo classico, facendo quindi un prodotto dignitoso e ben fatto senza però troppi sbalzi qualitativi, ma che però finisce per mischiarsi con la media. Si può eccedere con la melodrammaticità, col gravissimo rischio di cadere nel ridicolo o, ancor peggio, nell'autoparodia. O sennò si può fare a modo proprio, infischiandosene di tutto e tutti e creando qualcosa di estremo, sia per quanto concerne il versante negativo che quello positivo. E' quello che fa il mio adorato Takashi Miike con questo Visitor Q, pellicola di estrema originalità ed efferatezza che, avviso fin da subito, mi sento caldamente di sconsigliare a un pubblico particolarmente sensibile o impressionabile nonostante l'elevata qualità artistica.
Avete una famiglia di merda? Allora le vicissitudini degli Yamazaki possono consolarvi, perché molto difficilmente potrete vivere una vita peggiore di questa. Il figlio è vittima di un gruppo, di bulli, e si sfoga a casa picchiando la madre, la quale scappa alle quotidiane insoddisfazioni drogandosi di nascosto. Il marito invece è un giornalista televisivo frustrato che vuole fare un servizio sulla sessualità e sul bullismo, e che intanto ha una relazione incestuosa con la figlia, che è andata a vivere da sola e si mantiene prostituendosi. Le cose però cambiano quando il marito viene attaccato da un giovane misterioso che lo colpisce in testa con un sasso, venendo poi a vivere addirittura a casa sua...
Questo progetto era stato inizialmente pensato per la televisione. E pensateci bene, in Giappone rischiano di vedersi in televisione cose come questa, mentre da noi tira unicamente Squadra antimafia. E penso che siamo proprio il rovescio della medaglia l’uno dell’altro, perché segna un modo di pensare tipico di due paesi che però hanno trovato la propria rovina esattamente per i motivi opposti. Da una parte un popolo di castrati che, a causa di una vita programmata fino al millesimo e data al lavoro in tutta la sua totalità (a confronto i tedeschi sono dei pelandroni), ha fatto dell’esasperazione dei temi il punto forte della propria produzione, mentre dall’altra una popolazione che dopo il boom è vissuta in una perenne ignoranza nonostante abitasse nel paese che ha dato i natali a tutti i movimenti artistici e culturali di ogni secolo, arrivando a una sorta di azzeramento culturale che, inevitabilmente, li sta portando allo sfacelo. Siamo ancora così diversi, a una prima occhiata? Io credo di no. L’unica diversità concepibile è quella degli estremi, perché più due cose sono lontane, più finiscono per diventare vicine. Sono due tipi di disagi molto diversi e, con le dovute (ed esagerate) estremizzazioni, Miike porta a casa il suo ritratto familiare sui generis, tenendo conto di quello che è il proprio entroterra culturale e cosa simboleggi la famiglia nella sua cultura. Mette così in piedi un teatrino dell’assurdo dove tutti i valori vengono messi alla berlina, sbeffeggiati da un indugiare della macchina da presa su tutte le efferatezze di una famiglia che ha dimenticato il proprio stato unitari e che, vittima di una stessa società che dovrebbe eguagliare, finisce per diventare l’apoteosi dell’infilmabilità. E la cosa più geniale è che, in un film dove tutto il peggio sembra accadere, il regista decide di censurare i genitali dei personaggi, sottolineando ulteriormente come una comune morale, qui mostrata come un mero atto pudico, si nasconda sotto quotidiani strani di ipocrisia, come se il rispettare una certa etichetta possa rendere più accettabile un’azione malvagia. Anche se nessuno credo sia propriamente malvagio, in quella famiglia, ognuno è vittima delle sue fobie e del proprio modo di vivere dissoluto, fino a che non arriva il giovane misterioso, il visitor Q del titolo e succede quello che deve succedere. D'altronde lo dice anche la fisica, a un'azione corrisponde anche una reazione, ed è così' che quando un qualcosa di esterno fa breccia in quella famiglia, tutto sembra capovolgersi. Un occhio esterno riesce a riportare sugli altri tutto il marcio che appare da quella situazione. Certo, è un qualcosa che non avviene senza qualche intoppo, ed è questo che a mio parere non fa decollare totalmente il film. Certi passaggi sono davvero troppo allucinanti (la madre che si munge il latte è quanto di più vomitevole abbia mai visto in vita mia, seriamente) e i segmenti narrativi riguardanti il padre e il figlio non sono proprio moralmente accettabili. Il primo si conclude con uno stupro, che credo sia quanto di più moralmente sbagliato possa esistere, mentre il secondo con l'assassinio di un gruppo di minorenni. Eppure quella scena finale fa rivalutare tutto come un qualcosa di folle a autodistruttivo, come se la redenzione non dovesse guardare in faccia nessuno e non per forza essere incline a leggi morali o etiche. Quella è la loro rinascita, fatta in un mondo dove le leggi non sembra seguirle più nessuno, quindi per quale motivo avere una propria moralità in un mondo dove tutti sembrano averla persa? D'altronde non c'è nessun senso. Solo merda, come dice il padre verso la fine, tutto è merda e alla merda deve ritornare. Amen.
Visione obbligata anche se non consigliata a tutti per via della sua particolarità. Di sicuro però si tratterà di una gradita sorpresa per chi vuole rifuggire da un cinema occidentale fossilizzato nel suo essere sempre troppo indulgente o poco coraggioso nell'osare.Voto: ★★★
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