Obbligata a leggere questo dramma di Bertolt Brecht il quarto anno di liceo dalla professoressa di storia e filosofia, lo odiai a morte. Non per il testo in sé o per la difficoltà che ho trovato, fino a qualche anno fa, nel leggere testi teatrali (che comunque sarebbe sempre preferibile goderne in rappresentazione), ma perché non capivo il senso di tale lettura. Oggi credo di aver realizzato come questo testo si connettesse al programma e, in generale, all'idea di formazione che la scuola deve promuovere, ma, probabilmente, colei che ce lo affibbiò non lo saprebbe spiegare come non seppe farlo allora. Non si può assegnare la lettura di un documento tanto forte e tanto significativo senza contestualizzarlo e senza avviare un confronto dopo la lettura, specialmente se si presta a percorsi interdisciplinari che non coinvolgono solo la filosofia, la storia, la letteratura e la fisica, ma anche l'etica e l'attualità più cocente. La mia insegnante - per fretta, per disinteresse o per qualche altro motivo che ancora non riesco a cogliere - si è persa la straordinaria occasione di aprirci un mondo.
Vita di Galileo è un dramma in quindici scene scritto da Bertolt Brecht (1898-1956) fra il 1938 e il 1956 in più versioni e incentrato sulle vicende professionali del padre della scienza moderna fra il 1609 e il 1637. Per capirci, dall'invenzione del telescopio a qualche anno dopo la famosa abiura.
Nonostante i diversi cambi di scena, i riferimenti storici e la gran quantità di personaggi, il testo si segue senza difficoltà e risulta molto coinvolgente, soprattutto nelle parti dedicate al dibattito sulla questione copernicana, sia da parte di Galileo, che ne illustra la dimostrazione al giovane Andrea Sarti, figlio della sua governante e poi suo fidato allievo, sia all'interno della Chiesa che la dichiara eretica. Brecht, con il suo Galileo, non solleva però solamente interrogativi classici sul dibattito fra fede e ragione, ma sottolinea le implicazioni politiche del contrasto fra la verità e la sua manipolazione, riflettendo la situazione che lo stesso autore sta vivendo e osservando da tedesco esule negli Stati Uniti a causa delle ritorsioni naziste: da un lato assiste all'evoluzione di una scienza asservita al potere, un servaggio che culminerà nel lancio della bomba atomica, dall'altro si interroga sul ruolo degli intellettuali che, come lui, sono costretti alla fuga per poter continuare a sostenere le proprie idee ma, con quella stessa ritirata, lasciano il campo libero alla propaganda e alle azioni brutali della dittatura, che piega sotto di sé qualsiasi barlume di resistenza o libertà.
"Dove per mille anni aveva dominato la fede, ora domina il dubbio. Tutto il mondo dice: d'accordo, sta scritto nei libri, ma lasciate un po'che vediamo noi stessi. È come se la gente si avvicinasse alle verità più solenni e battesse loro sulla spalla; quello di cui non si era mai dubitato, oggi è posto in dubbio. [...] È risultato che i cielo sono vuoti: e a questa constatazione è scoppiata una gran risata d'allegria"
Nella lotta di Galileo per l'affermazione delle sue conquiste scientifiche e della validità del metodo sperimentale contro ogni dogma precostituito, simboleggiato da coloro che si dicono sapienti al grido di "Ci fondiamo, niente meno, sull'autorità del divino Aristotele", c'è un grido di ribellione contro chi propugna l'idea della necessità dell'ignoranza per mantenere una posizione di superiorità e conservare il proprio potere: la Chiesa che ostacola lo scienziato e Ludovico Marsili, giovane di nobile famiglia che lo invita a deporre le sue tesi, rappresentano la paura, comune a tutti i potenti, che mettere in dubbio le Scritture equivalga ad un attacco all'autorità. Chi, infatti, si piegherebbe alla fatica del duro lavoro e alle angherie dei padroni, se gli venisse rivelato che il disegno provvidenziale di un Dio che promette riscatto agli uomini umili e sofferenti è una certezza che può essere disintegrata al pari di qualsiasi altra?
"Quella Sacra Scrittura, che tutto spiega e di tutto mostra la necessità: il sudore, la pazienza, la fame, l'oppressione, a che potrebbe ancora servire se scoprissero che è piena di errori? [...] Dobbiamo tacere per il più nobile dei motivi: la pace spirituale dei diseredati!"
Questo il suggerimento che dà a Galileo Fulgenzio, un monaco che dapprima lo invita ad essere cauto, salvo essere poi colui che, assieme ad Andrea, rifiuta l'idea che lo scienziato possa abiurare, preso dall'ammirazione per il suo amore della verità. Ma è più forte il modo in cui Andrea e Federzoni (l'occhialaio che assiste Galileo e che è ben più vicino al sapere di tutti coloro che lo bollano come un ignorante che non conosce il latino) canzonano Ludovico e lo sdegno che manifesta verso Galileo e che culmina nella rottura del fidanzamento con sua figlia Virginia:
"I nostri omaggi a tutti i Marsili!"
"Che ordinano alla terra di stare ferma, sennò i loro castelli potrebbero andare a gambe all'aria!"
Per Galileo non è quindi l'ignoranza il male del mondo o l'ostacolo alla verità, bensì la strumentalizzazione della verità, il suo voluto oscuramento, la manipolazione di un sapere che di diritto appartiene a tutti, come la ragione umana, che, pur usando talvolta violenza all'uomo, alla fine lo persuade e lo seduce, lasciandosi amare.
"Chi non conosce la verità è soltanto uno sciocco; ma chi, conoscendola, la chiama bugia è un malfattore!"
A Galileo non mancano gli inviti alla prudenza, ma da ognuno di essi egli trae una tal forza e una tale determinazione a perseguire la verità che, a poco a poco, tutti coloro che, volendogli bene e seguendo con curiosità il suo lavoro, auspicavano la sua cautela diventano i suoi più strenui sostenitori.
"È una notte di sventura, quella in cui l'uomo vede la verità; è un'ora di accecamento, quella in cui crede il genere umano capace di ragionare. [...] Credi che i potenti lascerebbero mai andar libero uno che conosce la verità, fosse pure in merito a stelle infinitamente lontane?"
Queste le parole di Sagrdedo, amico di Galileo, che, in qualche modo, riassumono l'atteggiamento di tutti i poteri forti che, come nella Germania nazista da cui fugge Brecht, vogliono soffocare il libero pensiero che li può sovvertire, per quanto apparentemente lontano dal piano tangibile degli eventi umani. Ma per Galileo, che risponde alle minacce con un solido e costante "Io devo sapere", "la verità è figlia del tempo e non dell'autorità" e "La verità riesce ad imporsi solo nella misura in cui noi la imponiamo; la vittoria della ragione non può essere che la vittoria di coloro che ragionano": perseguire questo alto valore è un dovere etico che lo scienziato si pone prima di tutti e sopra ogni cosa, consapevole della portata del proprio pensiero, che trasforma la rivoluzione copernicana in una potenziale rivoluzione sociale.
Tuttavia la teoria copernicana viene dichiarata eretica e, nonostante l' imprimatur dell'illuminato papa Barberini (Urbano VIII) al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), l'anno seguente Galileo è invitato ad abiurare. Su di lui, in verità, fin dall'inizio del dramma aleggiano lo spirito di Giordano Bruno e l'eco della sua terribile fine, eppure, mentre a Roma, il 22 giugno 1633, si attendono i rintocchi della campana che annuncerebbero l'avvenuta abiura, Andrea e Fulgenzio si dicono certi che Galileo non si piegherà. Ma quei rintocchi arrivano, e ad ognuno di essi viene rimarcata la sconfitta della scienza, al punto che Andrea, disperato, grida: "Stanno uccidendo la verità".
Galileo, dunque, viene liberato e si ritira in una casa fuori Firenze, prigioniero dell'Inquisizione, attendendo alla scrittura dei Discorsi delle nuove scienze. Qui gli fa visita Andrea, ormai avviato agli studi scientifici, ma determinato a lasciare l'Italia, luogo in cui la forza perseguita i ricercatori della verità. Il giovane, che tanto aveva creduto nel rifiuto dell'abiura da parte del maestro, si fa ora comprensivo: Galilei ancora sta scrivendo e ciò significa che aver piegato il capo è stato solo un modo per impedire che la scienza salisse sul rogo assieme a lui. Ma ora è Galilei ad essere duro con se stesso, a disprezzare la paura della morte e del dolore fisico.
Andrea: "Noi ripetevamo all'uomo della strada: "Morirà ma non abiurerà". E voi siete tornato dicendoci: "Ho abiurato, ma vivrò". Noi allora: "Vi siete sporcate le mani". E voi: "Meglio sporche che vuote".
Galileo: "Meglio sporche che vuote... Bello. Ha un suono di qualcosa di reale. Un sono che mi somiglia. Nuova scienza, nuova etica" (Galileo)
L'affermazione del fisico è sprezzante e sanziona la certezza che il comportamento antieroico dimostrato quel 22 giugno non sia stato di alcun aiuto alla scienza ma che, anzi, abbia segnato la sua vera sconfitta. Ed è a questo punto che Galilei sostiene un' autoaccusa che parla direttamente ai contemporanei di Brecht, agli scienziati e agli intellettuali tutti del suo tempo:
"Non credo che la pratica della scienza possa andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti. [...] I moti dei corpi celesti ci sono divenuti più chiari; ma i moti dei potenti restano pur sempre imperscrutabili ai popoli. [...] Finché l'umanità continuerà a brancolare nella sua nebbia millenaria di superstizioni e di venerande sentenze, finché sarà troppo ignorante per sviluppare le sue proprie energie, non sarà nemmeno capace di sviluppare le energie della natura che le vengono svelate. [...] Se gli uomini di scienza non reagiscono all'intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l'uomo. E quando, coll'andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall'umanità. Tra voi e l'umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale... [...] Se io avessi resistito, i naturalisti avrebbero potuto sviluppare qualcosa di simile a ciò che per i medici è il giuramento d'Ippocrate: il voto solenne di far uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell'umanità. Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo. [...] Per alcuni anni ebbi la forza di una pubblica autorità; e misi la mia sapienza a disposizione dei potenti perché la usassero, o non la usassero, o ne abusassero, a seconda dei loro fini.. Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza"
Il sapere, dunque, è per Galileo/Brecht ciò che dovrebbe essere per tutti noi: non un cumulo precostituito di nozioni da usare per controllare il prossimo o per glorificare e autocelebrare se stessi in quanto possessori della verità, ma come uno strumento di progresso che aiuti gli uomini a comprendere gli uomini e a sostenerne i diritti. La scienza e la cultura hanno una ricaduta etica fondamentale, che l'intellettuale non può ignorare e che anzi, deve essere la sua missione fondamentale, di fronte alla quale non si deve retrocedere. Nelle note al testo scritte dall'autore ma non riviste in forma definitiva, compare una considerazione che mi ha molto colpita e che spiega la durezza di Brecht nel condannare Galileo (un'aggiunta, quella del monologo finale, da legare direttamente all'evolversi delle vicende belliche), secondo la quale la sottomissione dello scienziato produsse un riadagiarsi della Chiesa sulle sue posizioni precedenti, senza che essa subisse alcun danno e, anzi, rafforzano la propria posizione:
La Chiesa, e con lei tutta la reazione, poté ritirarsi in buon ordine e conservare più o meno intatta la sua forza. Per quanto concerne queste scienze, esse non riacquisirono più quella funzione così importante nella società, non tornarono più su posizioni così vicine al popolo. Il misfatto di Galileo può esser considerato il "peccato originale" delle scienze naturali moderne.
Questo passo, oltre che rimarcare i doveri di chi possiede e maneggia il sapere e la verità, dà uno spessore che va ben oltre la mera citazione alla frase che identifica più di ogni altra Vita di Galileo:
"Sventurata la terra che ha bisogno di eroi"